REHANA MARYAM NOOR (2021), di Abdullah Mohammad Saad
Parte già dal titolo, la profonda ricerca di dignità di Rehana Maryam Noor. Un titolo che non si limita al primo nome della protagonista, ma che lo enuncia completo, in tutta la rispettabilità che merita come donna, come madre e come insegnante che rifiuta di volgere lo sguardo dall’altra parte. Ma anche come essere umano che, al pari di chiunque, può sbagliare, cedere alla mania del controllo, alle instabilità psicologiche, allo scontro con una figlia troppo simile e a questioni di principio morali che forse in fin dei conti si rivelano più di natura egoistica che per il bene comune. Del resto è apertamente di lotta, l’opera seconda che Abdullah Mohammad Saad ha realizzato a cinque anni dal celebrato Live from Dhaka. Una lotta che è apertamente bellicosa contro un collega molestatore e il sessismo sistemico che serpeggia fra le ingiustizie della società, ma che al contempo è anche interiore, di una donna contro se stessa e contro i propri fantasmi, contro i traumi passati e contro le acredini del presente. In un film che, nelle sue lungaggini amanuensi, nella sua coralità non sempre gestita a dovere, nella sua istintualità imperfetta e nelle sue fin troppo evidenti derivazioni farhadiane prive però dell’arguzia del grande autore iraniano, a differenza del precedente non riesce davvero a essere bello, ma non rinuncia nemmeno per una sola inquadratura a essere importante. Non solo perché primo lungometraggio bengalese di sempre a fare parte, nella vetrina di Un Certain Regard, della selezione ufficiale del Festival di Cannes, ma anche e soprattutto per la sua vis politica nell’affrontare di petto la questione femminile, per la sua aperta critica alle storture del Bangladesh, e non certo in ultimo per la sua capacità di evitare la glorificazione agiografica o la bidimensionalità buono/cattivo dei personaggi, al contrario stratificati ognuno con i suoi pregi e con il suo lato oscuro – «Tu conosci il mio, ma il tuo qual è?». Un film che si fonda sulla straordinaria intensità che l’esordiente Azmeri Haque Badhon riesce a donare alla protagonista, sui suoi sguardi e suoi suoi silenzi, dilaniata fra la consapevolezza di avere ragione e le più drammatiche conseguenze del suo idealismo. Quello di una donna che, testarda, si mette contro tutto e contro tutti, mossa da un indomabile senso di giustizia in un Paese dove ancora le dicono apertamente in faccia che «le donne non devono avere un grande ego», o ancora che «cucinare e crescere i figli non è meno importante che andare a lavorare». Un Paese violento, di molestie impunite e, quando è una piccola femmina a ribellarsi contro un maschio, di obblighi di scuse formali perfino per non essere espulsi dalle elementari. Un Paese di aperti ricatti e di crimini coperti per salvare la reputazione dei datori di lavoro, nel quale ogni lotta diventa fazione, falsa accusa e falso ricorso, senza farsi il minimo scrupolo a usare e aizzare gli studenti per risolvere una guerra personale fra docenti. Un Paese intimamente corrotto, in cui andare avanti per la propria strada può avere un costo esorbitante.
Non è più il bianco e nero di Live from Dhaka. Questa volta a intrappolare le immagini di Abdullah Mohammad Saad è una fotografia fredda, bluastra, con cui una macchina da presa rigorosamente a mano pedina con quell’ottica 50 che da sempre simula la visione umana gli interpreti e si ferma, tremolante, a osservarli in attesa degli eventi. È praticamente ambientato tutto a scuola, Rehana Maryam Noor, in quel college per futuri medici nel quale la protagonista è assistente tanto inflessibile che non può tollerare che una studentessa possa barare a un esame, nemmeno se realmente preparata, nemmeno mentre giura e spergiura che quel righello con incisi gli appunti non è suo. Un senso della giustizia tanto profondo da rivelarsi sin da subito opposto alla malleabilità disinvolta del professor Arefin, e che finisce inevitabilmente per radicalizzarsi quando, una sera, Rehana incontra un’altra studentessa che fugge in lacrime e con la camicetta strappata dall’ufficio del collega. Un qualcosa che non si può tacere, nemmeno quando la giovane si rifiuta ripetutamente di denunciare il docente per la violenza subita. Non si può tacere alla moglie dell’insegnante, non si può tacere alla dirigente scolastica, non si può tacere al mondo, perché il molestatore va fermato prima che possa ricominciare a infilare le mani sotto i vestiti di un’altra ragazzina. Anche a costo di farla diventare un’ossessione insalubre, una spirale senza uscita, un progressivo perdersi. Perché, quando tutte le strade diritte sono sbarrate – da una studentessa che vuole solo dimenticare senza ripercussioni, da una preside a cui importa solo la buona reputazione dell’istituto, da una società da sempre troppo impegnata ad accampare giustificazioni per l’uomo per ascoltare senza reprimere la verità della donna – servono necessariamente le vie traverse. Fino all’aperto sotterfugio, con la decisione di dichiarare un falso che possa portare all’obiettivo di obbligare alla confessione e alle dimissioni il pericoloso collega.
Rehana (Maryam Noor, giusto continuare a chiamarla per esteso, perché in tutto ciò che fa non perde mai nemmeno un briciolo di dignità) rinuncia così alla pura verità da testimone per recitarsi nei panni della vittima (il vero e il falso, il falso e il vero), e denunciare in prima persona lo stupratore. Un crimine inventato di sana pianta per punire tutti quelli veri rimasti sotto silenzio, e soprattutto per evitarne di futuri. Ed è qui che Saad scarta dal pericoloso terreno del film a tesi e si stratifica, perché le bugie, anche quando raccontate a fin di bene, hanno le gambe corte. Specialmente quando il punto è morale, e la menzogna è più che sufficiente in quanto tale per trasformare i sentieri della moralità in sabbie mobili nelle quali è questione di un attimo rimanere invischiati. Come donna sola contro una struttura patriarcale in cui le donne bengalesi sono le prime a sottostare, come madre la cui trascuratissima figlia dimostra la stessa violenta testardaggine al punto di picchiare un bambino che l’aveva infastidita a scuola e poi tentare la fuga, e come insegnante a cui l’intera classe si ribella chiedendone le dimissioni, aizzata da Arefin e dal ricorso della studentessa estromessa dall’esame con prove che, nel tentativo di insabbiare con le buone o con le cattive la sua crociata contro il collega, era evidentemente convenuto considerare insufficienti. Un tunnel sempre più oscuro di ricatti per non perdere il lavoro e di repressioni da ogni parte della sua sfera, di lunghi istanti in bagno a tentare di lavare via il dolore e di un crescente conflitto generazionale destinato a esplodere, di questioni di principio che diventano controproducenti (distruggere un sogno pur di non lasciar chiedere scusa nella ragione) e di moralità sempre più sdrucciolevoli. Compresa la sua, da icona quasi supereroistica a essere umano fatto di pregi e difetti, di esagerazioni e di fagocitazioni, di cadute etiche per un disegno più grande e di un orgoglio tanto radicato da rivelarsi inevitabilmente croce e delizia, autoaffermazione e incapacità di accettare anche i compromessi che nella vita propria e dei figli sono inevitabili. Un punto di non ritorno in cui forse non può esistere una vittoria, non più. Perché oramai ci si è sporcati dello stesso fango del ‘nemico’, usandone gli stessi mezzi, e scoprendosi meno perfetti e più fragili di quanto si pensasse. Semplicemente esseri umani, che anche in buona fede commettono errori, che deludono una figlia nelle sue più eccitate aspettative e che, per riaffermarsi dopo la sua ribellione, si scoprono capaci di usare quella stessa identica violenza e repressione che sempre così apertamente combattuto. Ma che solo così, forse, riescono a salvarne la purezza. Almeno la sua, almeno per un po’. Trasmettendole così il senso più profondo dell’emancipazione. Ci metterà solo un po’ di tempo a capirlo.
Marco Romagna