Reflection. Selezione Ufficiale. Venezia 78, Settembre 2021, 125 minuti, 26 inquadrature sublimi e scioccanti. Queste le uniche informazioni che servono prima di entrare in sala e lasciare che Valentyn Vasyanovich faccia strage di noi. Una strage fisica, emotiva, sensoriale, animale e spirituale, che finisce l’operazione già iniziata con Atlantis, di cui si potrebbe dire costituisca una sorta di prequel. Se con il premio Orizzonti 2019 aveva raccontato il Donbass post-apocalittico e avvelenato del 2025, e dunque del conflitto russo-ucraino immaginariamente finito da un anno, oggi si concentra sullo stesso appena iniziato per davvero nell’ironicamente simbolico ‘14, numero mortifero sia in questo che nello scorso secolo. La terra deserta, neanche più marcia poiché già sterile e invivibile (di marcio ci sono solo più i cadaveri mummificati e bagnati di una brina non loro), è in Reflection ancora fertile e le case abbandonate e scrostate sono ancora appartamenti lindi e ordinati, in due film che sono l’uno il negativo dell’altro, l’uno il riflesso dell’altro, in cui di speculare c’è il dolore circa la crudeltà umana i cui limiti sono ancora da pervenire e allo stesso tempo la fiducia in un calore che di fatto non si spegne. Quello che veniva ripreso da telecamere termiche in apertura e in chiusura di Atlantis, e che evidenziava in maniera surreale ma in realtà profondamente concreta – è l’energia che emettiamo a tenerci in vita, siamo fatti di caldo – azioni che sono tra di loro agli antipodi come la brutalità di un uccisione a sangue freddo e la tenerezza di un abbraccio, in qualche maniera paradossale aleggia anche nel più “pulito” Reflection, ma questa volta non serve vederlo con un filtro colorato, semplicemente arriva, scuote e poi e si innesta sottopelle, come una sensazione, come un’emozione, come il decodificare del linguaggio di una messa in scena che nei suoi pianisequenza è un pugno in faccia, un’onda anomala, una continua epifania.
Spari fasulli innescano la narrazione. Se nell’incipit del film del 2019 ad essere finti erano i bersagli umani, che ricevevano però proiettili veri, ora è il contrario. La scena iniziale si apre su un campo da paintball: i bersagli sono fatti di carne e ossa ma i bullets di vernice colorata e festosa perché è il compleanno della figlia di Sergey, il medico di guerra ucraino protagonista della storia che occupa il quadro successivo mentre fallisce nel salvare la carne e ossa di un soldato che non è stato mitragliato dai colori dell’arcobaleno, e di cui vediamo solo il rosso del sangue e il rosa biancastro di una pelle la cui temperatura scemerà ancora. La camera è fissa come nella quasi totalità delle inquadrature e qui accosta due campi medi che incorniciano immagini inquietantemente simili e drasticamente diverse, costruendo il primo di quei giochi di schermi e cornici che saranno costanti in un film che viene fuori dal dispiegamento di quadri nei quadri, che ricordano i tableaux vivents e che potrebbero bastarsi da soli nel loro dipingere scene opposte ma ugualmente vere, da quelle di tortura a quelle di amore paterno. L’umanità è una costante contraddizione, qui accuratamente incorniciata in finestre, architetture rettangolari o quadrate, colonne e schermi negli schermi. Vasyanovich sfrutta un decor che si piega a sottolineare il concetto di punto di vista e di osservazione che diventa una sfida per lo spettatore, poiché quando non lo inganna direttamente quasi lo ingaggia in una conta o meglio in un inseguimento affannato e infinito di questa perfezione di simmetrie, come nella magistrale scena del drive-in cui la vista di una strada dall’interno della macchina e attraverso il parabrezza martellato dalla pioggia si scopre essere in realtà sequenza di un film proiettato. Fino alla pioggia e ai tergicristalli. Una suggestione che si spera in grado di innescare una riflessione non sulla rappresentazione, quanto sull’atto della spettatorialità stessa, che anche quando è passiva è sempre in fondo attiva (può forse agire sugli eventi stessi) e che dunque sarebbe doveroso riservare nei riguardi di un conflitto a cui ormai poco si rivolge lo sguardo. Un’omissione che colpisce tanto più forte quanto più è vicina: basterebbero poche ore di macchina dal Lido per verificare la veridicità di molti fatti raccontati.
Il pubblico si perde nel gioco del cinema qui portato all’estremo, pur in una fissità di macchina che comunque difficilmente suggerisce una regia distante, poiché ne testimonia una meticolosa, teatrale e accuratissima nei suoi incessanti loop di inquadratura nell’inquadratura e nell’assolutezza del suo rigore formale, in cui tutto è perfettamente controllato nel raccontare di un mondo fuori controllo. La potenza visiva arriva quasi a superare quella emotiva di ciò che sta accadendo: in poche parole ci si perde nella bellezza di ciò che si guarda e questa talvolta supera la bruttezza di ciò che si racconta, senza tuttavia sfociare mai in una pornografia della violenza e del dolore.
L’azione si innesca nel momento in cui Sergyi durante un trasporto notturno viene rapito a un posto di blocco che segna il confine con la Repubblica Popolare di Donetsk, nell’Ucraina orientale, occupata dalle forze militari russe. Qui sarà spettatore, come il pubblico che lo osserva, delle torture riservate ai soldati connazionali che si rifiutano di tradire i compagni e che lui stesso si trova a dover dichiarare morti prima di essere rilasciato in uno scambio di prigionieri, a condizione di aver firmato una dichiarazione fasulla in cui “conferma” di essere entrato illegalmente nel territorio e con il divieto di raccontare ciò che ha visto. Il medico dovrà tacere non soltanto quelle torture che sembrerebbero inimmaginabili se non si sapessero vere (frutto della testimonianza di un giornalista ex prigioniero, come ha dichiarato l’autore), ma anche lo smaltimento dei cadaveri, inceneriti in un camion che reca la scritta tragicamente ironica di “Aiuti umanitari della federazione russa” affinché non rimanga più nulla di loro se non qualche articolazione in acciaio. Tra questi corpi spariti c’è quello di Andriy, straordinario protagonista di Atlantis e qui nel ruolo di soldato e soprattutto di patrigno della figlia di Sergiy. Con il volto tumefatto, la gamba trapanata che sgorga sangue, lì appeso con le mani in alto e il corpo a peso morto di chi ha perso conoscenza ma ancora respira, non può che rievocare l’immaginario dell’iperrappresentato Cristo in croce, un cristo militare in un mondo in cui Dio è una assenza costante e gli uomini devono sostituirlo e bastarsi da soli. Sergyi slegherà le sue mani per sganciarlo da una croce che è una catena e adagiarlo su un suolo che è il duro della pietra/lettino operatorio, in questo Calvario al chiuso che è una sala degli orrori, con un gesto di Deposizione che conferma la suggestione mistica e religiosa di un film che diventa a tratti una trasposizione immanente di icone neotestamentarie. Presto il ruolo del chirurgo da Nicodemo passa a quello di Cristo quando performa il suo primo miracolo secolare, che è quello con cui restituisce la vita a un morto. Soffoca Andryi per risparmiargli il dolore di ulteriori soprusi, e così regala un’eutanasia che è la vera rinascita in quell’upside-down in cui niente segue la traiettoria corretta e tutto sembra disfarsi.
Al suo ritorno a casa, pur tenendo un segreto che sempre rende complici di coloro con i quali lo condividiamo, in questo caso i romani-russi, Sergyi riveste infatti in qualche modo dei panni del Salvatore. Un salvatore di ritorno dagli inferi, un salvatore profondamente umano, spaventato, contaminato dal viaggio, che ha forzatamente abbracciato e vissuto senza armi spirituali né fisiche quelle guerre che ormai raggiungono una dimensione metastorica e si ergono, come sempre, a simbolo di tutte le guerre. Un salvatore agghiacciato e distorto, il cui terreno d’azione non è la società in toto, non è il mondo da redimere, ma il proprio nido da proteggere, il ristretto nucleo della sua famiglia che cerca di strappare dal dolore di una scoperta che pure vorrebbe concedere. È lui infatti a pagare l’inceneritore di cadaveri affinché contatti l’ex moglie e le restituisca l’unico corpo che è stato risparmiato dall’oblio della cenere, e quindi forse risorto nel mantenimento di una carne certamente già putrefatta ma ancora materia, non ancora atomi dispersi. Ma soprattutto ritorna al suo ruolo di padre per cui era stato momentaneamente sostituito (è lui ora a regalare le lezioni di equitazione e il drone promesso dal patrigno scomparso) e a cui ora si dedica completamente per curare le proprie ferite come quelle della figlia, iniziata alla comprensione della limitatezza della vita umana.
Sergyi e Andryi arrivano così a corrispondersi, a combaciare, ad essere uno il rovescio dell’altro, il riflesso, che dà il titolo al film ma che non viene mai esplicitato se non en passant in un momento specifico. Un piccione, che sembra di fatto più un corvo, sbatte contro la finestra della casa di Sergyi di fronte agli occhi della ragazzina. Involontariamente suicida e come spiega più avanti il protagonista probabilmente attratto dal riflesso sulla finestra che è quello dei piedi appoggiati di lei che scrutava il cielo sdraiata sul pavimento a pancia in giù, involontariamente carnefice in un mondo di cui il caos e il suo anagramma caso sembrano essere il vero motore, sempre in contrasto con l’ambiente organizzato, preciso, squadrato, maniacalmente perfetto che il film presenta. Come un butterfly effect in cui più che connesso tutto è attorcigliato, ogni gesto in un modo o nell’altro si riflette sulla vita degli altri ma spesso la volontà del singolo è subordinata a forze che non dipendono da lui. Così, nonostante gli effetti mortiferi delle loro azioni, padre e figlia sono di fatto scevri di colpa poiché tutto ormai è disfatto, e la responsabilità nasce dall’ordine e dalla consequenzialità dei mondi che girano secondo un solo verso.
L’uccisione di Andryi per mano del suo alter ego, l’uccisione di un piccione per mano (piedi) di una bimba innocente. E il segno di questa seconda morte simbolica, il suo riflesso, resterà impresso al centro di una finestra tripartita come i trittici delle pale d’altare e si staglierà come una colomba bianca, dissacrata e paradossale che veglia sul protagonista da quando questo si rannicchia sul divano in una posizione fetale che replica, dunque raddoppia, lo stesso gesto che questi aveva compiuto la prima notte in una cella scrostata di verde. Un nuovo upside-down della stanza medio-borghese e incontaminata in cui si trova ora.
Ma Vasyanovich talvolta lascia andare l’inquadramento per collocare i personaggi in spazi aperti, liberi e ariosi (all’interno dei quali però non è difficile notare la presenza di bivi), come in una delle scene centrali dell’opera che è quella in cui padre e figlia si ritrovano in un campo abbandonato, circondati come da colonne antiche spezzate che forse una volta reggevano un tempio. Una sorta di cimitero della cultura religiosa dell’umanità in cui i due senza pensiero strappano le pagine della “Bibbia spiegata ai bambini” per alimentare il fuoco che li deve riscaldare e per abbattere e ricostruire un nuovo, personale, credo da regalare a questa umanità sconfitta. Se la speranza del credente è che Dio, che «è stato così in gamba da creare dal nulla» possa attraverso gli atomi portare alla resurrezione dell’anima, la verità è comunque una: «bruciato nel fuoco o sepolto nella terra, la sostanza è la scomposizione dei corpi proteici». Una visione strettamente materialistica che non stona con le speculazioni della ragazzina circa un futuro in cui tramite campioni di DNA si stamperanno corpi con la stampante in 3D, ma che lascia spazio al dubbio: «e se l’anima esistesse davvero?». E se il corpo fosse solo il tempio dell’anima, come credono i cristiani, o invece la prigione della stessa secondo la visione buddista? L’ultima religione degli uomini allora è la religione del dubbio (dunque forse la prima). Un dubbio che qui non è figlio del relativismo, quanto di un disfattismo impaurito e titubante che lascia spazio a ogni possibilità – dopo essersi rotta il polso cadendo da cavallo, temendo di essere stata punita per aver bruciato la Bibbia, la ragazzina chiede al padre di essere battezzata «nel caso la vita dopo la morte esistesse davvero».
Ma si tratta di un disfattismo paradossalmente ottimista e umanitario, che si incarna ancora in questa figura sempre di più mistica che quando cerca di rimuovere dal vetro la sagoma di quello che per lui è solo un pennuto morto nel perimetro di casa sua, di fatto estende una macchia luminosa che durante la pioggia per la condensa diventa ancora più evidente e che rassomiglia a una fiammella, come se a vegliare sulle sue notti ancora tormentate sullo stesso divano ci fosse ora uno spirito santo con le s volutamente minuscole. Non il fuoco sacro, ma molecole d’acqua, corpi proteici ormai decomposti di un animale tra i tanti della città e sicuramente polveri di smog rimaste accumulate sul vetro. Una religione dell’abbandono che è ottimista perché incentrata sull’uomo, questo essere il cui spettro di azioni, quindi di capacità, e quindi sì, questa volta, di volontà, oscilla dalla più profonda disumanità al più sublime umano, muovendosi in un mankind straziato ma che ha ancora voglia di sopravvivere e vincere. E forse anche di aiutarsi. Così si potrebbero catalogare i due momenti in cui un branco di cani inseguono nel bosco un passante e Sergyi interrompe la sua corsa per soccorrerlo, per poi essere a sua volta soccorso poche notti dopo, nello stesso punto e nello stesso pericolo, da uno sconosciuto che come lui veste i panni del buon Samaritano e si preoccupa per il suo prossimo. Una professione di Fede e utopia che viene resa ancor più evidente nell’epilogo girato in un teatro, setting che permette finalmente a Vasyanovich di svelare platealmente ciò che ha cercato di rivelare in maniera subliminale per tutto il film. Alcuni ex soldati sono a un training di recupero da stress post-traumatico e, girati di spalle, devono riconoscere i loro cari dal passo di questi che camminano tra tanti. Sergyi riconosce sua figlia, che a sua volta riconosce sua madre. Si raggiungono allora in un punto del palcoscenico e si uniscono in un abbraccio dritti davanti alla macchina da presa che fissano. Viene così sancito il raggiungimento dell’agnizione e del ritorno che la mitologia antica ha così tanto inseguito, e allo stesso tempo, con la messa non più in quadro ma direttamente in posa della famiglia de-composta e infine ora ri-composta, si unisce ai due topoi odisseici un nuovo motivo culturale che è quella formula religiosa con cui da millenni si cerca di spiegare la realtà, e qui di nuovo simbolicamente incarnata, come pars pro toto valida per tutte le altre, nell’icona cristiana della famiglia sacra. A presentarsi a un pubblico affaticato da oltre due ore di visione che non lascia scampo è una famiglia profana, ma in realtà ancora più sacra perché santificata dall’esperienza dissacrante del vivere di cui il film, nella sua maniera che crea un’atmosfera a metà tra il documentaristico e il surreale, si limita a raccontare una parte, collocabile in un punto preciso della retta della storia e della politica attuale ma di fatto al di sopra di tutto.
L’amore e la vicinanza sono l’unica via di salvezza, mentre ad essere sancita è la vittoria dell’umanità su tutto, anche sulla morte, che d’altronde era già stata vinta in Atlantis (per quanto sia un trionfo sempre temporaneo) quando in un camion pieno di cadaveri due semplici mortali avevano unito i loro corpi ancora caldi in un godimento che diventa grido di affermazione di sé e della nuova umanità, che è quella vecchia, quella di sempre, che resiste come la ginestra di Leopardi. La vittoria dell’uomo su se stesso e dunque anche su Dio, come nuovo gradino della civiltà chiude il film con una speranza amara e sudata ma pur sempre una speranza, e forse un auspicio: che l’umanesimo laico possa essere l’unica via? Non è dato saperlo. Forse. Quello che si sa è che entrambi i film si concludono con un abbraccio, e che per qualche ragione si esce dalla sala commossi, pensosi, colpiti, entusiasti e magari anche un po’ spaesati, ma con addosso una forma di strano e incomprensibile ottimismo.
Bianca Montanaro