RE GRANCHIO (2021), di Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis

«Ma una notizia un po’ originale non ha bisogno di alcun giornale
come una freccia dall’arco scocca vola veloce di bocca in bocca
»
Fabrizio De André, Bocca di Rosa

«Di Luciano si dicevano un sacco di cose. Luciano era un pazzo, Luciano era un nobile, Luciano era un santo, Luciano era un ‘imbriacone’. Era famoso in paese perché aveva commesso un omicidio, però poi era scappato…». O forse, come suggerisce il Principe della Tuscia contro il quale l’anarchico paesano tentò di ribellarsi fino a essere costretto alla fuga in Patagonia, Luciano – che visse due volte, e che due volte sopravvisse ai proiettili – era già al tempo semplicemente «un fantasma», una figura in dissolvenza, quasi invisibile per il Potere eppure destinata a diventare leggenda nella tradizione orale del popolo. Una figura sospesa fra la vita e la morte proprio come inevitabilmente lo è fra la realtà e la fantasia, fra le storie di paese tramandate dai cacciatori dell’alto Lazio e quelle leggende morali che sono da sempre vera e propria forma di istruzione per gli Indios della Terra del Fuoco. Perché Luciano è ormai anche e forse soprattutto un’utopia, un antieroe dei due mondi, un racconto mitologico, una pennellata di fiaba sul vero. Un uomo, regolarmente censito prima in Italia e poi fuggiasco a Buenos Aires, realmente esistito nel tardo Ottocento e realmente accusato di un’orribile colpa, e al contempo un personaggio ormai fantastico, magico, per molti versi immaginario, protagonista di una storia cresciuta e (ri)plasmata nel tempo lungo un telefono senza fili di decenni e di intere generazioni. A trasformare le iniziali dieci parole in quindici, poi in cinquanta e infine in cento, intrecciandone le fila nell’immaginazione di chiunque le narrasse fino a non poter più distinguere l’accaduto dall’inventato. Un racconto popolare tramandato in chissà quante versioni leggermente dissonanti e di volta in volta esacerbate in qualche episodio; uno fra i tanti c’era una volta della memoria collettiva che, pur non essendo più del tutto reale, non ha mai smesso nemmeno per un momento di essere profondamente vero. La perfetta occasione per Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis per continuare a indagare, dopo la breve distanza di Belva nera (2013) e la forma documentario de Il Solengo (2015), il senso stesso della narrazione, la sua origine, il suo diventare tradizione fondante di un luogo e di un popolo. Questa volta, però, ai due registi non basta più la creatività della parola, protagonista ben più dell’eremita Mario de’ Marcella del già grande film di sei anni fa. Serve anzi il suo esatto controcampo, l’immaginazione, la ricostruzione, la messinscena, la pura visionarietà. Il sogno ad occhi aperti che, dalla parola, prende vita in immagini sullo schermo, fino a intercettare e intersecare quelle altre storie popolari dall’altra parte del mondo con cui liberamente reinventare un destino attraverso un cinema straordinariamente coraggioso e orgogliosamente fuori dal tempo, pronto a deflagrare potente in ogni luce e in ogni ombra, in ogni cromatismo e in ogni saturazione dell’emulsione Kodak a passo ridotto. Un cinema capace di trovare un miracoloso punto di equilibrio fra istanze narrative ed estetiche anche opposte, per esplorare un qualcosa di radicato e iper-popolare eppure per molti versi alieno, non solo in Italia, alle produzioni e alle prassi della settima arte.

È per questo che non poteva che ripartire proprio da dove finiva Il solengo, questo magnifico Re Granchio coerentissima e affascinante chiusura di trilogia e al contempo, per Rigo de Righi e Zoppis, folgorante esordio nel lungometraggio di finzione, presentato prima alla Quinzaine des Réalisateurs di Cannes74, poi al 39mo Torino Film Festival e infine giunto nelle sale. Non poteva che ritornare alla medesima locanda sperduta nei boschi del viterbese e agli stessi uomini, contemporanei eppure così atemporali nei loro volti ancestrali, ancora seduti attorno allo stesso tavolo di sempre. Non poteva che ritornare alle medesime memorie popolari e condivise, magari imprecise e contraddittorie in qualche dettaglio ma non per questo meno puntuali negli insegnamenti, che giorno dopo giorno rievocano e ripensano il passato. Consapevole però che il linguaggio del cinema può e deve osare anche oltre il punto in cui quello orale dei paesani si ferma. Fino a immaginare per il dissoluto ubriacone Luciano altre avventure, altre identità, altre lotte, altre lingue, altre morti, altre resurrezioni, altre leggende popolari. Non un semplice epilogo, ma una vera e propria seconda vita fatta di altre storie, di altri linguaggi, di altre sparatorie e di altri immaginari ma anche degli stessi tesori, punto di approdo del medesimo impossibile sogno d’amore e di redenzione. Forse è davvero il colossale valore economico dell’oro della Corona spagnola a nascondersi fra i flutti, o forse è quello affettivo, ancor più incommensurabile, di un ciondolo etrusco un tempo pegno di un sentimento e adesso simbolo d’eterno rimpianto. Di certo è il valore di un uomo a essere in gioco. «Un pazzo, un nobile, un santo, un ubriacone», o forse più semplicemente Luciano, un innamorato. Basta qualche stornello d’osteria e una Tosca cantata a cappella, per immergersi nella Vejano del Diciannovesimo secolo. Così come basta la febbre dell’oro argentina che emerge come l’ennesimo racconto nel racconto dalle oscure pagine del diario di un curato (della Pampa) per spostarsi dall’altra parte del mondo. Basta una storia “da pirati” che non ha bisogno di alcuna bandiera con teschio e tibie incrociate, basta un’antica melodia tradizionale che da canto sul fiume diventa polifonia rituale e poi semplice fischio nel deserto, basta l’oscura nodosità quasi caravaggesca dei boschi italiani che si ribalta nell’abbacinante infinitezza bianca delle spiagge e delle montagne del Sudamerica. Bastano i volti ‘veri’ degli uomini e delle donne, le ritualità di ieri e di oggi, il super16 ‘magico’ di Alice Rohrwacher che incontra quello western e atipico di Lisandro Alonso, mentre Il fattaccio di Sant’Orsio trova il suo secondo capitolo (e forse, nella disperazione, pure la sua Fede) In culo al mondo. Basta una silhouette in controluce, il sole al tramonto che si specchia sulla superficie, Luciano che emerge dall’acqua. Forse è il placido laghetto degli amori giovanili, o forse è la laguna di montagna dei sensi di colpa, del martirio, del riscatto, dei ricordi, della pace, di una nuova narrazione. Del tesoro. Un luogo dove «diventare Re, manco un Principe», o per lo meno poterlo ancora sognare, in un impossibile ritrovarsi che forse non può essere nemmeno un vero finale, ma solo l’ennesimo intersecarsi e ripartire di una nuova narrazione, di un nuovo (vecchio) sogno, di una nuova immagine. Senza più porte da riaprire e poi bruciare, senza più granchi da inseguire, senza più tradimenti né angherie da subire, senza più alcool né ribellioni. Ma ancora con un amore che non conosce fine, né oceano, né morte. Solo la purezza del racconto. Solo la purezza del grande cinema.

Marco Romagna

Roma, 11 novembre 2021
Si comunica che il film RE GRANCHIO di Alessio Rigo de Righi, Matteo Zoppis, distribuito da Istituto Luce Cinecittà Spa, è stato designato Film della Critica dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani – SNCCI.
Motivazione:
Il Re Granchio porta in luoghi lontani nel tempo: nella Tuscia di fine ’800, terra ancora feudale dove un principe governa il destino dei propri sudditi, e all’altro capo del mondo, in una Patagonia dalle atmosfere quasi soprannaturali. Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis ricostruiscono un racconto orale ammantato di leggenda e realizzano un cinema avventuroso e insieme spirituale, capace di stupire lo spettatore e di accompagnarlo in territori inaspettati, tra la magia e la dannazione.