RAT FILM (2016), di Theo Anthony
L’idea che sta alla base di Rat Film, raccontare oltre un secolo di segregazioni e diseguaglianze sociali sulla superficie della città di Baltimora attraverso i ratti che storicamente ne infestano i bassifondi, è di per sé geniale. È un ribaltamento, è una ricerca del nascosto per parlare del palese, è una sovrapposizione di specie animali che finiscono per identificarsi nel destino comune, fra leggi contro i ratti e segregazioni razziali, fra fogne e ghetti, fra speranze e sogni, fra la caccia al cibo e la caccia all’animale indesiderato. Quella della città del Maryland contro i roditori è una vera e propria guerra che va avanti dai primi anni del Novecento, una battaglia a colpi di veleno e di editti firmati dal Municipio per autorizzare provvedimenti sempre più invasivi, eppure loro, le pantegane, continuano a nascere, crescere, proliferare, sgusciare negli anfratti più nascosti, sfuggire all’uomo e al suo occhio, devastare case e giardini. Soprattutto nei quartieri più poveri, quelli che nel 1911 erano i ghetti per i neri e che da 60 anni dopo, quando la segregazione razziale è stata dichiarata illegale, hanno continuato a essere le zone più povere e infestate della città, quelle lasciate volutamente indietro, abbandonate a loro stesse, come se la fine della segregazione avesse semplicemente aperto le porte al razzismo e all’isolamento. Sono quelle zone delle quali si possono sovrapporre le piantine di ogni tempo, per notare come le parti di tessuto urbano nere, gialle, rosse, pericolose, disoccupate, infestate e ammalate siano sempre le stesse da più di 80 anni a questa parte. Perché, come dice il derattizzatore che svolge il ruolo di guida nel film, “A Baltimora non è mai stato un problema di ratti, è sempre stato un problema di uomini”. E, in questo senso, Baltimora rappresenta ogni città del mondo, ogni luogo infestato dalle ingiustizie sociali, dalla ghettizzazione, dalla xenofobia. Ogni luogo in cui si tolgono spazi vitali a chi lo abita, in nome di una presunta superiorità di qualcuno su qualcun’altro.
È un film di suggestioni, Rat Film. Un film-saggio che, saggiamente, non vuole imboccare vere e proprie tesi e risposte, ma si limita a sollevare questioni, a far riflettere su come l’uomo e il ratto siano in realtà animali molto simili, capaci di sognare allo stesso modo, capaci di sviluppare lo stesso istinto di sopravvivenza, capaci di subire le stesse rappresaglie e le stesse violazioni e, nonostante tutto, di esserci ancora. Perché quando un topo viene messo di fronte, attraverso un vetro, a cibo non raggiungibile, sogna di andare avanti, sogna di poterlo avere, come tutti noi faremmo. E quando, nel corso di oltre tre mesi di osservazione in un interessantissimo esperimento sugli effetti della folla, un’intera colonia di ratti fu rinchiusa in un ambiente con a disposizione postazioni sopraelevate, piene di cibo e di rilievo rispetto alle altre, i ratti finirono, esattamente come avrebbero fatto e hanno storicamente sempre fatto gli uomini, per sbranarsi fra di loro, creando una classe dominante cannibale al loro interno. Mentre, a Baltimora, i “ratti umani” continuano a girare per la superficie della città: sono ubriaconi, sdentati e reietti, ma anche e soprattutto chi invece è pulito e ben vestito, benestante, razzista, e guarda ai cittadini di serie B esattamente come guarda ai ratti, con la stessa aria di superiorità, con lo stesso disprezzo, con la stessa arroganza lanciata avanti a fare da scudo per la propria fragilità. Perché l’uomo è debole, egoista, impaurito, ed è per questo che, esattamente come un ratto, diventa aggressivo.
Il regista classe ’89 Theo Anthony, nel sorprendente esordio che arriva all’International Film Festival Rotterdam dopo i passaggi a Locarno, al DocLisboa e a TFFdoc del Torino Film Festival, intreccia in maniera organica e omogenea diversi filoni narrativi e tematici, che vanno dalla lotta di ogni giorno effettuata dai derattizzatori alla storia dei veleni, dai modellini delle scene del crimine ai ratti neonati e ancora rosa che vengono dati in pasto ai serpenti, dagli esperimenti compiuti negli anni sui roditori alle animazioni 3D che simulano in realtà virtuale una loro soggettiva per far emergere la loro psicologia e le loro abitudini. Il risultato è un film ellittico e affascinante, capace di parlare attraverso gli animali più odiati dall’uomo di integrazione, di disoccupazione, di povertà e di ingiustizie sociali. Originale, lontano dalla retorica e profondamente politico, Rat Film è un caleidoscopio di impressioni e reazioni, un rutilante viaggio in ciò che è tenuto più nascosto per riferirsi a ciò che invece si trova sulla superficie del mondo, ma allo stesso modo rimane celato ai più da un assordante muro di silenzio. Rat Film si interroga prima di tutto sugli spazi, su quegli spazi di segregazione destinati a rimpicciolirsi progressivamente fino a sparire. Quegli spazi che l’uomo vorrebbe togliere ai ratti, senza lasciare loro nemmeno più i ghetti; quegli spazi che il bianco ha sempre tolto ai neri, fra diritti negati, negozi a ingresso vietato, barriere fisiche, in un’asfissia sociale progressiva dal retrogusto mortifero, perché se togli i diritti, gli spazi vitali, la dignità, togli nei fatti anche la vita. Rat Film è una ricerca di spazio nascosto, di quello spazio in cui si incuneano gli animali più schifosi come quello spazio in cui, in superficie, sono sempre state costruite barriere e steccati, fisici o di fatto. E, se vogliamo, quello stesso spazio sul quale giusto in questi giorni il neoeletto Donald Trump sta delirando riguardo la necessità di un muro fra gli States e il Messico.
I ratti possono saltare fino a 84 centimetri, ma la profondità dei bidoni di Baltimora è di 86, scientemente studiati per farli rimanere intrappolati, incapaci di fuggire. Il ratto è per antonomasia l’animale più atroce, quello che porta malattie, quello che si incunea viscido con gli occhi rossi e la sua orribile coda. Quello che sparisce alla vista dell’uomo infilandosi nei buchi più stretti, quello che è difficile da vedere e da stanare, ma in realtà è sempre vicino e apparentemente in agguato, forse in un cassonetto, forse in una siepe, forse in un luogo in cui nessun uomo potrà mai arrivare. Il ratto è un animale usato dall’uomo come cavia per qualsivoglia esperimento, un animale usato dall’uomo in tempo di guerra alla stregua di un’arma batteriologica per diffondere la peste, un animale usato dai cittadini di Baltimora, adesso, come bersaglio di una guerra compiuta con le armi più improbabili, da una lunga storia di veleni – in realtà inefficaci, perché il problema non è mai stato risolto e i ratti si sono sempre ripresentati più famelici e più numerosi di prima – alle offensive private di chi pur di stanarli si ritrova a girare come uno sceriffo notturno armato di fucili giocattolo, cerbottane, persino canne da pesca. Accanto a loro, c’è chi vive abitualmente con i propri ratti/animaletti da compagnia, li lascia scorrazzare per casa, li nutre, suona per loro il flauto e li ripone, con l’amore di un papà, ogni sera nella propria gabbietta, come a dire che non può esistere razionalità o realtà assoluta, ma solo un rapporto personale. Basta un piccolo roditore perché al debole uomo, nella stragrande maggioranza dei casi, salti ogni schema mentale e fisico, basta un piccolo errore di calcolo perché anche le mappe digitali presentino zone buie e fuori dal controllo in cui i ratti continueranno a proliferare, basta un momento di incertezza perché la preda scappi e diventi impossibile da ritrovare. Basato sulle contrapposizioni e sulle suggestioni, quello di Theo Anthony è un film magmatico, che trova nelle sue musiche elettroniche e nella sua foresta di registri la propria originalità e la propria ficcanza. Rat Film rifiuta la razionalità antropocentrica, rifiuta l’egoismo dell’uomo e punta anzi i fari sulla nostra inadeguatezza, ipnotizzando lo spettatore con la sua assoluta, ma pienamente logica, inafferrabilità. Come un ratto in corsa, del quale dopo pochi secondi non si vede nemmeno più la coda.
Marco Romagna