Forse non esiste una storia vera più intrinsecamente bellocchiana del caso Egdardo Mortara, il bambino ebreo sequestrato nel 1858 dallo Stato Pontificio di Papa Pio IX per crescerlo come cristiano dopo che venne fuori che, durante una malattia e rigorosamente di nascosto dai suoi genitori, una domestica cattolica aveva deciso di battezzarlo per evitargli il Limbo. Una vicenda di famiglia e di religione, da sempre principali ossessioni del regista di Bobbio, su cui agevolmente innestare ancora una volta le sue riflessioni sul Potere spirituale e terreno, sulla colpa, sull’ambiguità, sul condizionamento, sul rapporto con la madre, sulla violenza specialmente quando apparentemente gentile, sulla vacuità autoriferita e ipocrita del rito ecclesiastico e sulla sostanziale inutilità di quello giudiziario. Ma anche sul pubblico e sul privato, sui tempi che scorrono a velocità troppo differenti nel mondo esterno e all’interno delle secolari istituzioni, sui sogni che inevitabilmente sfociano in incubo e sulla dicotomia psicologica ed esistenziale di una personalità costretta dalle imposizioni e dal lavaggio del cervello a due anime, due culture, due lingue, due diverse fedi – «sai mamma, recito ancora ogni sera lo Shemà Israel» – e due diverse vite. E poi sulla Storia d’Italia e d’Europa, rievocata proprio nel momento del suo farsi, della nascita del Regno, della Breccia di Porta Pia, del Risorgimento che entra a prendersi Roma chiudendo per sempre, dopo più di 1100 anni, l’assolutismo monarchico, politico e spesso tirannico dei Papa-re. Un film di leggi spirituali, di leggi della Natura e di leggi terrene, di costanti pressioni e di umilianti penitenze, di fantasmi onirici e di reverenti doveri di sottomissione, di sindromi di Stoccolma e di genitori semiti ritenuti sprezzantemente «superstiziosi e indegni» di crescere un figlio che ormai appartiene a Cristo e ai suoi rappresentanti. Un film fatto dell’alterigia scostante, razzista e classista di chi comanda una Chiesa e, forse soprattutto, uno Stato e i suoi vassalli, un film fatto di chi dà ordini e di chi ubbidisce, di chi asserve e di chi si lascia assoggettare. Di ateismo praticante eppure di una spiritualità personale e profondissima – la psicanalisi, la religione, la nevrosi, la manipolazione, i simbolismi del sogno e la contraddizione che sfocia in schizofrenia. Per un risultato di sicuro molto diverso e probabilmente ancor più stratificato da quello che avrebbe voluto ottenere dallo stesso episodio storico Steven Spielberg, che per primo anni fa avrebbe voluto mettere in scena – con mire ed esiti totalmente differenti, a partire dal testo da adattare, Prigioniero del Papa Re del giornalista americano David Kertzer, mentre Bellocchio dopo aver ‘ereditato’ la vicenda al momento della rinuncia da parte del regista statunitense ha deciso di basarsi su Il caso Mortara di Daniele Scalise – la storia del bambino bolognese trafugato a soli sei anni dal Papa e mai restituito. Una circostanza tutta italiana eppure dalla risonanza già al tempo europea, mondiale, storica, politica, paradigmatica, universale, per l’ennesimo straordinario capolavoro che consacra ancora una volta Marco Bellocchio fra i più grandi registi non solo italiani e non solo della contemporaneità, autore ancora una volta di un film magnifico, prodigiosamente complesso e travolgente, ambiguo e stratificato, profondo e potentissimo.
Presentato in concorso al 76mo Festival di Cannes giusto un paio di giorni prima dell’uscita nelle sale italiane, Rapito parte dalla notte del battesimo, dal soldato austriaco che la servetta di casa Mortara si è portata a casa per una notte di passione, dalle preghiere in ebraico dei genitori intorno alla culla del piccolo Edgardo, tanto intense da far pensare alla balia che il bimbo di appena un anno fosse in punto di morte. Una religione, quella israelitica, che è a sua volta così intrinsecamente familiare nei riti, nelle credenze e nelle preghiere da poterla portare avanti da soli in un nascondino al di sotto di un lenzuolo, del tutto diversa dalle ostentazioni pubbliche del cattolicesimo e delle sue cerimonie celebrate sulle spalle dei servi dalle sedie gestatorie, e soprattutto dal potere pressoché assoluto del Santo Uffizio regnante al tempo su una buona metà di un’Italia ancora da farsi. Un potere in grado di compiere ogni tipo di sopruso e di legittimarlo con la sua natura divina, di ricattare e di condizionare il popolo magari al punto da convincerlo che ogni imposizione subita fosse una sua libera scelta, e di certo di strappare del tutto legalmente un figlio alla sua famiglia senza che nessuno potesse opporre la benché minima resistenza, perché ormai «vostro figlio è cristiano in eterno», e «si può perdere tutto ma non un’anima che Cristo ha conquistato con il suo sangue». Per quanto, per considerarlo realmente cristiano, sarà necessario un secondo battesimo che segua alla lettera i riti della liturgia. Eppure, quando questa contraddizione verrà fatta notare nel processo con cui disperatamente cercare di comprovare l’abuso di potere del Santo Uffizio (effettivo, visto che anche secondo le leggi pontificie non era legale prelevare un bambino prima del compimento del suo settimo anno di età) e riottenere il proprio figlio, verranno considerate più che sufficienti quelle poche gocce d’acqua nemmeno benedetta versate sulla sua fronte dalla serva. Una decisione presa dal tribunale forse per dogma o forse per sudditanza, forse per convinzione o forse per impossibilità di contraddire il Papa sovrano. Facendo finta di non vedere l’evidenza, un po’ come quando il piccolo Edgardo, giocando con gli altri bimbi da convertire e plasmare nella Casa dei Catecumeni, troverà rifugio sotto la sua gonna, con i piedi ben visibili accanto a quelli del Pontefice che ridendo finge di chiedersi dove sia finito il bambino, segnando l’impossibilità per gli altri di andarlo a prendere prima del suo tana liberi tutti. Solo alcune fra le discordanze e le contrapposizioni su cui Marco Bellocchio, con la collaborazione alla sceneggiatura di Susanna Nicchiarelli, affonda le radici del suo Rapito, ennesimo straordinario film di doppiezze e di sfumature, di psicologia e di politica, di anticlericalismo e di mistica del sogno. Un film di punti di vista che ribaltano le concezioni in profonde e ripetute manipolazioni, in menzogne, in violenze psicologiche, religiose ed esistenziali, in ricatti morali e in riletture di comodo – «Gesù era ebreo come te e come te è stato battezzato, ma è morto: lo hanno ucciso gli ebrei», o ancora «Mi dicono che sono reazionario, non è vero: è il mondo che si muove mentre io sto fermo. Il progresso è la rovina». In una costante necessità di fingere o di reprimere, nella croce messa al collo come «portafortuna» con cui ancora celebrare lo Shabbat, in quell’istante in cui perdere per un attimo il controllo e lasciare emergere l’anima repressa che nel momento (storicamente comprovato) dell’assalto popolare alla salma del Papa vorrebbe per prima gettare «quel porco» nel Tevere. Ma anche nei ripetuti rifiuti di tornare a quella vita precedente oramai persa da qualche parte nei ricordi e nei riferimenti familiari negati, nella scelta di assumere proprio il nome del suo Papa “adottivo” Pio al momento di farsi ordinare sacerdote, o ancora nelle fialette d’acqua santa con cui cercare ancora, perfino di fronte alla morte della madre, la conversione del resto della famiglia.
Un film profondissimamente laico che mette apertamente in scena l’inutilità del rituale di Fede (il bambino compagno di sventura che muore nonostante le ripetute preghiere di tutti gli altri suoi compagni) e che punta apertamente il dito verso le evidenti colpe della Chiesa, ma che al contempo costruisce attraverso le visioni, le paure e le contraddizioni una sua personalissima mistica, fatta di papi che sognano la propria circoncisione come emblema di evirazione dal proprio potere sulla Terra, di ombre fantasmatiche dietro alle tende del letto a baldacchino che da qualche parte fra la coscienza e la persecuzione ricordano a Edgardo la sua ormai doppia appartenenza e l’impossibilità di una reale libera scelta, di visite notturne al crocifisso della chiesa in cui immaginare di liberare Cristo dei suoi chiodi e guardarlo andare via libero, a differenza di chi quei chiodi che lo imprigionano nelle stanze pontificie non ha modo di toglierli, e solo nell’unico incontro che gli verrà concesso con la madre, e che Bellocchio mette in scena con un’intensità e una forza espressiva ai limiti dell’insostenibile, potrà finalmente smettere di fingere di stare bene e lasciar esplodere tutta la sua nostalgia, tutta la sua malinconia, tutto il suo dolore. Un rapporto per molti versi uguale (e probabilmente non è casuale in tal senso la scelta di far incarnare entrambe le madri a Barbara Ronchi, né di far nascondere entrambi i bambini sotto alla sua gonna) a quello già al centro di Fai bei sogni, solo che questa volta la mancanza è verso una genitrice viva che, come tutte le mamme (e non i padri) della cultura ebraica, unica linea di sangue da cui i figli ereditano l’appartenenza al popolo e al culto, rappresenta un’intera cultura, un’intera religione, un’intera identità (in)compatibile con quella che la legge può imporre. Basterebbero i monumentali montaggi alternati con cui Bellocchio mette di fronte e contrappone le differenti liturgie, le differenti civiltà, le differenti comunità. Basterebbe la disperazione irrefrenabile del padre dopo la sconfitta in tribunale, ennesimo tentativo andato a vuoto di riottenere il suo bambino, o quell’istinto di un attimo subito frenato dalla lucidità e dalle lacrime di gettarlo dalla finestra pur di non farselo portare via. Basterebbe quel momento in cui, con un occhio a I racconti della luna pallida d’agosto, l’imbarcazione dei rapitori di Stato risale fra le nebbie il Tevere portandolo verso Roma e il suo destino. Basterebbero i dialoghi con cui, da adulto e sacerdote cattolico, Edgardo rifiuta di tornare a casa con il fratello Riccardo, tenente dei Bersaglieri e liberatore al momento della Breccia di Porta Pia, «la mia casa è questa, la mia famiglia è questa, non riconosco il vostro Stato di usurpatori contro un uomo saggio come San Pietro». Basterebbe la sua granitica e bruciante (in)certezza nell’incarnare una contraddizione esistenziale. Basterebbe la rara potenza cinematografica di Rapito, con cui il regista piacentino torna ancora una volta alL’ora di religione, torna ancora una volta a compiere un Salto nel vuoto, torna ancora una volta a veder Vincere (e poi sgretolarsi) il Potere su chi non ce l’ha e nel corso della Storia ne subisce le prevaricazioni e i condizionamenti. Torna alla famiglia – quella di nascita, quella (imposta) della Chiesa, quella Nel nome del Padre – e alla doppiezza della spiritualità, torna alla natura più intima e contraddittoria di un Paese e all’interpretazione dei sogni che lo rappresentano, torna a confrontarsi con il Potere – terreno, secolare, religioso, decadente – e con l’impossibilità dei singoli di evitar(n)e l’ambiguità morale e la schizofrenia. Torna al dogma inattaccabile da rimandare a memoria e alla scissione dell’umano di una forzata conversione, torna alla nevrosi e alla meccanicità del rito, torna alla potenza dei simboli e alla vertigine onirica dell’introspezione. Torna agli attacchi di epilessia de I pugni in tasca, torna ai processi blindati de Il traditore, torna a (far) giocare a nascondino sotto la protezione (emotiva) delle gonne – questa volta, come già detto, non solo materne ma raddoppiate e stratificate nell’ambiguità di quelle papali – e torna alla sua lettura profondissima del reale e della Storia. Torna al suo cinema ogni volta sempre più straordinario, complesso, travolgente, inebriante. Convintamente ateo e intimamente ghibellino, eppure un vero e proprio atto di Fede, nelle immagini e nella narrazione, che non sarà mai e poi mai possibile tentare di convertire.
Marco Romagna