«Sto filmando». «Perché?». «Per la Storia». Una consapevolezza lucidissima, quella del nonno cineamatore con la Hi8 in mano di fronte al cielo illuminato a giorno dai bombardamenti su Belgrado. Fissare su nastro magnetico la memoria di quei giorni, al di là della sua passione per le immagini, era sin da subito diventata una necessità, per se stesso e per i posteri. Anche se nessuno in quel momento avrebbe voluto smettere di inquadrare la normale intimità familiare per ritrovarsi impotente a guardare gli eventi storici. Nessuno avrebbe voluto passare nel giro di pochi giorni, a cavallo fra il ’98 e il ’99, dalle idilliache riprese dei giochi d’infanzia con i criceti alle esplosioni delle granate sulla città poco lontana. Tanto meno l’incolpevole regista Marko Grba Singh, che al tempo aveva solo dieci anni, e che da un momento all’altro è stato costretto ad abbandonare temporaneamente la sua vita per sfollare prima dal nonno e poi a Timisoara, nello squallore della Romania agli ultimissimi vagiti di Ceaușescu, per poi tornare in una Serbia che non sarebbe mai più stata Jugoslavia. Un trauma da rivivere attraverso le immagini di oggi e soprattutto di ieri per capirlo fino in fondo e definitivamente metabolizzare gli incubi ricorrenti di tutta la vita. E poco importa che non siano più le cassette originali della videocamera, ma una duplicazione su quei VHS che magari all’inizio delle loro bobine intrappolano ancora qualche vecchia pubblicità socialista passata prima di chissà quale programma TV, mentre le ultime linee di pixel in basso seguono lo scorrere del nastro e, proprio come la Storia, sfuggono inevitabilmente verso destra. Quello che conta è la loro memoria analogica con in sovrimpressione la data sempre giusta e l’ora sempre sbagliata, spesso corretta dalle parole di chi filma. Quello che conta è rendersi conto, da adulto, dello sforzo dell’intera famiglia per rendere ai bambini l’esperienza meno traumatica possibile nell’ineluttabilità storica di ciò che stava accadendo, l’ultranazionalismo di Milošević e i quasi tre mesi di bombardamenti della NATO, la pulizia etnica in Kosovo e la paura di essere arrestati alla frontiera. Quello che conta è la vita che, nonostante tutto, ancora emergeva dalle giornate fra i cani, i cuginetti in giardino e le partite a Age of Empire sul PC, mentre la morte squarciava la notte con un rifugio improvvisato fra le bombe all’orizzonte. Contrasti di gioia e dolore che ancora adesso cronologicamente si intrecciano nella grana low-fi in 4/3 delle immagini d’archivio, memorie e sguardi a venticinque fotogrammi al secondo di chi non c’è più ma ancora in quelle immagini vive, ride, guarda e parla. Basta premere play e riaprire gli occhi.
Nasce dalla vecchia casa di Belgrado in cui Marko Grba Singh ha passato l’infanzia Rampart, notevole esordio al lungometraggio presentato nel ricco fuori concorso di Locarno74. Una casa che per il regista classe ’88 ha rappresentato la gioia familiare di prima e dopo la guerra, ma che ora vuole dire solo abbandono e malinconiche mura, ormai del tutto vuota e in rovina in attesa di essere venduta. Una casa che trasuda ricordi e rimpianti, le memorie ormai rarefatte di un bambino e quelle ossessivamente riguardate fino quasi a distruggerle delle videocassette. Quelle di una famiglia risucchiata nel vortice di un evento storico troppo più grande di qualsiasi riunione di parenti. Una storia personale che diventa piccolo granello della Storia universale. Ma non sono tanto gli eventi storici, a interessare Singh. Quelli sono solo la contestualizzazione, che può tranquillamente rimanere confinata nella parola in pochi cartelli. Rampart è (ri)viverli da un ben preciso punto di vista, personale e familiare, con la reminiscenza d’infanzia magari ormai offuscata e con l’archivio a ridare vita allo sguardo della madre, del padre e del nonno, fantasmi in doppia esposizione di un’infinita nostalgia. Ci sono i 16/9 in 4K di oggi, con gli ambienti di campagna e di città che in qualche modo sembrano voler raccontare anche la propria versione, e ci sono i 4/3 in Hi8 di ieri, con i troppi passaggi del nastro sulle testine che fanno svanire i ricordi anche da quelle memorie di immagini che sembravano inscalfibili. Spariscono i colori, si sfumano i contorni, e anche il nastro diventa indistinguibile, cancellato, rovinato come se perfino le immagini volessero dimenticare Timisoara e tutto quello che aveva voluto dire. Compresa la gioia ritrovata di un luna park, perché era sì finito l’incubo, ma non la sua inquietudine. Una sorta di unità di intenti fra le memorie, forse. O molto più semplicemente lo spezzone più volte riguardato. Di certo, oggi, un nastro parzialmente smagnetizzato che lascia esplodere sullo schermo tutto il suo dolore. Non resta che vagare un’ultima volta per le stanze e per i dintorni, registrando gli ambienti e il loro audio, ripensando a quei palazzoni e a quelle colline, riguardando per l’ennesima volta i filmati di quel tempo irreversibile, dopo il quale tutti sarebbero stati inevitabilmente diversi. Più impauriti, più traumatizzati, più tristi. Tanto che pure il cane, tanto giocherellone nei giorni prima di Natale ’98, si vede chiaramente diventare nel corso di poche settimane terrorizzato dal buio e sempre più attaccato ai padroni. Travolto da un’eclisse senza fine, da cui forse il sole non è mai più riemerso. O forse è solo questione di tempo, di finire questo film e assaporarne la catarsi, e finalmente le persiane potranno di nuovo riaprirsi per tornare alla vita. Chissà.
Marco Romagna