RADIANCE (2017), di Naomi Kawase
Qual è la frontiera fra ammiccare ed abbagliare? Quale quella fra una deliziosa e nipponica semplicità nel delineare la poetica delle emozioni e la comodità cinematografica dei cliché? Qual è il confine fra il cuore e la costruzione, fra la sincerità e il ruffiano, fra il grande cinema e il bluff? L’ultima parte della carriera di Naomi Kawase si muove continuamente su questi crinali scoscesi, li percorre silenziosamente, con molta grazia e con qualche frammento di compiacimento. Quella della regista giapponese è una lingua filmica diseguale e destinata a dividere, ora emozionante e ora bignami di se stessa, ora sinceramente accorata e ora studiata a tavolino, ora poetica e ora furbetta. Si pensi, per esempio, al precedente Le ricette della signora Toku, incidente di percorso nel quale questo suo cinema di confine tendeva a spingersi un po’ troppo verso il patinato, o per meglio dire verso l’insincero. Un’insincerità della quale non pochi stanno (ingenerosamente) tacciando anche questo Radiance, sorta di summa della sua opera giunta in Concorso a Cannes 2017 a dividere la critica fra scroscianti applausi e piccata ironia, e che invece è un ritorno della Kawase sui sentieri del suo cinema più espressivo, sulle sue umane fragilità messe in scena con grazia e poetica, sulle sue lente e (im)possibili elaborazioni emotive del lutto e della perdita, sulla costante ricerca di se stessi attraverso la pietà, l’attrazione, l’amore.
Non è tanto il titolo internazionale Radiance, letteralmente “splendore”, a rendere giustizia al film di Naomi Kawase. Semmai, a riassumere il cuore del film, la chiave delle sue suggestioni, ci pensa in questa Cannes quello francese Vers la lumière, “verso la luce”. Già, la luce. Una luce che torna a essere complice del cinema di Naomi Kawase allagando i volti, i gesti, i sentimenti, e persino le cecità. L’imperativo è che ci sia più luce, come in un pezzo dei primi Pink Floyd che avevano perso la brillantezza del proprio diamante, ed è proprio la luce che delinea le forme e le figure, disegna spazi che aggradano l’occhio e lo rendono partecipe, confina in una porzione sfocata di schermo gli ultimi residui di una vi(s)ta dietro (o sopra) al mirino di una camera oscura. I due protagonisti, lei audioguida nel cinema per non vedenti, lui (ex) fotografo che ormai (e ancora per poco) riesce a percepire quasi solo ombre indefinite, sono immersi nella luce e in un certo senso guidati dalla luce, quasi presi per mano e invitati a guardare una luminosità profonda, che scava nell’anima e che si nutre dell’apporto immaginifico e della capacità di unire del (dio) Cinema anche quando è invisibile, è descrizione, è creazione di immagini attraverso la parola, e quindi romanzo, atto creativo, arte, comunicazione, interpretazione, puro immaginario. Quello stesso immaginario unico e personale che, a ogni nuova rilettura di un libro e ancor di più a ogni nuova traduzione da una diversa lingua, proietta sul retro delle retine un “film” sempre diverso, fatto di sempre nuove immagini che nascono da una frase, da una parola, da un’emozione riferita con il necessario trasporto. Bisogna scegliere le parole giuste, in Radiance, bisogna soppesarle, bisogna trasformarle in emozione, evocazione, figura, visione. Verso la luce.
Lei, Misako, parla per lavoro e non riesce a farsi partecipe di una parola relazionale, lui, Masaya, guarda senza più riuscire a vedere, ma continua a raccogliere la sua vita con una vecchia macchina fotografica analogica, il grande formato della Rolleiflex al posto degli occhi, e forse ormai anche del cuore. Lei, Misako, ha perso un padre e non ha mai capito come, lui, Masaya, sta perdendo la vista, ovvero quell’occhio sul quale ha impostato, uno scatto dopo l’altro, tutta la sua vita. Con una trama semplice e dalla metafora chiarissima, Naomi Kawase torna ai temi da sempre cari al suo cinema, interrogandosi ancora una volta sulla perdita, sul lutto, sulla memoria. Perché la luce è anche ricordo, polietilene di pellicola sacrificata al rogo, sole che bacia l’oceano radente alla spiaggia, illusione destinata ad affievolirsi fino a sparire verso un buio che in realtà è indefinitezza di una luce eterna: Vers la lumière. Filma la luce, Naomi Kawase, e con la luce (e la sua definitiva negazione che poi è negazione delle forme e non della luminosità, del buio e non della luce) filma ancora una volta il vento, il disperdersi e il ricomporsi nella natura, l’umana fragilità, la transitorietà della vita e di ogni sua certezza. Il suo è un cinema dei sensi e dei respiri, misurato e conciso, emotivo e fantasmatico; è un cinema nel quale, quando si dilata la pupilla, è anche il cuore a farsi più ampio, pronto ad accogliere il riflesso che la luce provoca sugli oggetti e su di noi, una gamma di colori e di emozioni che spesso non hanno bisogno di una narrazione, ma solo di nuove immagini.
Quelle stesse immagini che Misako deve saper creare per chi non le può vedere, e per essere sicura che le sua parole sappiano effettivamente evocarle, nel corso della sua scrittura/lettura delle audioguide per i film, frequenta abitualmente un gruppo di non vedenti. Fra loro c’è Masaya, e con lui nasce, sulle orme del ricordo di un padre perduto e dei vecchi scatti, un’attrazione reciproca e (im)possibile, fatta di (casuali) inseguimenti e di ricordi comuni, fatta di mancanze e di affinità elettiva, fatta di traumi e di insperati baci, fatta dell’ultimo scatto di una vi(s)ta e di bastoni bianchi, fatta di lunghi cortili da attraversare in un buio eterno e di pazienti attese di chi non prova pietà, ma ama e silenziosamente rispetta la ricerca di dignità anche quando la malattia ha fatto il suo corso, e i nervi ottici non funzionano più. In Radiance c’è la disabilità, c’è il sentimento, c’è il lutto, c’è il riannodare i propri fili con il passato. Ci sono gli elementi naturali, c’è la luce perduta di Masaya, c’è la luce irradiata da Misako. E poi c’è il cinema, i cui fili di passione avviluppano i personaggi, e ci sono le fotografie di ieri e di oggi, ponte fra passato e futuro, ponte fra speranza e illusione, ponte fra ricordo e assenza. Affronta diversi temi, Naomi Kawase, in un racconto dilatato e corale, e lo fa senza retorica, con tenerezza, con pudore e con controllo, ragionando fino alla teoria sulle immagini: stampate, mancanti, da evocare con le giuste parole, oppure in movimento, in soggettiva, capovolte nel mirino. Fino all’ultima foto, alla cieca, sfocata, d’amore, dopo la quale la macchina non servirà più, e sarà come separarsi da una storica amante, dall’amica di una vita, dalla fedele compagna. Consci che ce n’è una nuova, deliziosa nell’accettarti per come sei, che ti attenderà dietro la porta fino alla fine dei tuoi giorni. Questo è il cinema di Naomi Kawase: un cinema di semplicità, di umori, di intima vicinanza con i suoi personaggi, di trasporto emotivo, di vitalità nei piccoli stravolgimenti della quotidianità, quando ci si guarda indietro e ci si sente perduti. Non le riesce proprio sempre, è vero, ma non è certo questo il caso in cui lamentarsi.
Marco Romagna, Erik Negro