“We must think differently, look at things in a different way. Peace requires a world of new concepts, new definitions”
Yitzhak Rabin
Ripensando allo spazio presente in un’inquadratura ed alla sua possibile conversione geopolitica il cinema di Amos Gitai, come di molti altri autori di quel territorio, è una continua ridiscussione storica di appartenenza. In questo ultimo film però il tentativo è un altro, quello di affrancarsi linguisticamente dalla metafora lavorando esplicitamente su un fatto storico, l’uccisione di Isaac Rabin. Sono passati vent’anni e proprio da qui l’esigenza di analizzare i possibili colpevoli reali di quella tragica giornata, come del resto le sempre più misere prospettive di pace in quell’angolo del medio oriente. Impressioni, figlie della crescente diffusione di una violenza di matrice religiosa nel cuore della società laica israeliana, che non troveranno risposta alcuna. In fondo è proprio la malattia che sta distruggendo l’idea democratica su cui è stato fondato Israele, forse, il simbolo stesso della fallacità di una possibile filosofia della storia che attraverso la comprensione dovrebbe portare all’evoluzione etica del singolo come di una società. Ma andiamo per ordine.
Qualche pixelata immagine di repertorio ci porta alla sera di sabato 4 novembre 1995. Nella piazza dei Re di Israele viene indetta una manifestazione ed un comizio sulla pace in cui i principali ospiti sono Simon Perez e soprattutto il Premio Nobel Yitzhak Rabin, due anni dopo gli accordi di Oslo. Alla conclusione un giovane si avvicina all’auto del presidente e lo fredda, con tre colpi di pistola. Da li la struttura del film prende improvvisamente forma, costruendosi attorno al found-footage rimasto da quella notte. Proprio da quei frammenti di immagine iniziali inizia la vera e propria indagine della commissione Shamgar che parte per essere un’analisi della sicurezza sull’evento e finisce per rivelare l’esistenza di un mondo oscuro e terrificante che ha reso possibile questo atto tragico. Israele, o almeno una buona parte della sua elitè cultural-politica, non era pronta ai grandi passi morali che Rabin esigeva per il più decisivo tentativo di riconciliazione degli ultimi anni, e probabilmente non lo è ancora oggi, forse non lo sarà mai. Vent’anni fa fu proprio quella sottocultura di odio alimentata da una retorica isterica, dalla paranoia e dagli intrighi politici, a provocare quell’attentato.
Proprio da qui parte lo straordinario gioco di sguardi e punti di vista su tutti quegli spaccati di società israeliana che nulla fecero per salvare la vita del presidente. I rabbini estremisti che condannarono Rabin invocando un’oscura decisione talmudica (emblematica è l’applicazione – secondo politico della storia dopo Trotzkj – del din rodef, procedimento per cui è lecito religiosamente perseguire anche con la vita figure che cercano di eliminare la tradizione ebraica). Gli eminenti politici di destra (il Likud su tutti) che parteciparono a una campagna di incitamento contro Rabin, mirabile la carrellata finale sui poster di Netanyahu che in tutto il film non compare mai, quasi fosse uno dei registi oscuri più eminenti dell’operazione. Ed infine i coloni israeliani militanti per cui la pace significava tradimento della propria lotta in difesa dell’ortodossia ebraica. L’ultimo sguardo è dedicato proprio agli agenti di sicurezza che videro cosa stava per succedere e non riuscirono a evitarlo ed ai medici che tentarono di intervenire in una situazione oramai seriamente compromessa.
Poi il controcampo di tutto ciò, l’interrogatorio all’assassino e, nell’interrogatore, l’utopia di un luogo di pace dei suoi stessi genitori fuggiti dal nazifascismo. Il personale, e la sua comparsa, irrompono in una struttura monolitica d’oggettività. Il discorso di Amos Gitai non può prescindere da una stessa presa di coscienza storica del ruolo dell’immagine come detonatore di percorsi interni alla comprensione di un momento storico, in cui la politica della democrazia pare essere in eterna lotta con il mito della religione. Nella deriva continua ricostruzioni rigorose e filmati d’archivio l’immagine trova la stessa dignità nell’interrogare continuamente i processi di una Storia e la sua fisica impossibilità, nella continua speranza che una possibilità di rifiuto al sionismo più radicale ed apertura alla democrazia sulla “questione palestinese” ci possa ancora essere. Gitai getta luce su una crescente crisi dell’odio che affligge la società israeliana odierna, ed il film nei suoi continui movimenti si fa sempre più intimo e doloroso. In fondo lo stato delle cose sembra non poter cambiare se non nel continuo sforzo di consapevolezza cui l’immagine può essere veicolo fondamentale di quella resistenza. Il travelling sotto la pioggia del finale ci mostra la Tel Aviv di oggi nella sua immobilità dopo che il giudice capo esce dall’ufficio e riprova continuamente l’orazione finale che (di)mostra questa consapevolezza. Il film si chiude. Gitai è un uomo prima di essere un autore coraggioso, che ha ancora la necessità viva di mettere la propria parola in mano alla Storia, sperando che qualcuno sia in grado di coglierla. Rabin, the Last Day è, finalmente, un serissimo candidato al Leone d’Oro.
Erik Negro