R.M.N. – ANIMALI SELVATICI (2022), di Cristian Mungiu
È l’acronimo che indica la risonanza magnetica R.M.N., il titolo originale (quello italiano sarà l’incommentabile Animali selvatici) del nuovo film con cui Cristian Mungiu, sei anni dopo il padre e la figlia di Bacalaureat, torna a quel concorso del Festival di Cannes già vinto nel 2007 con 4 mesi, 3 settimane e 2 giorni. Eppure, con l’ordine di quelle sue consonanti, R.M.N. non può che finire per identificare anche la Romania, della quale allo stesso modo, proprio come il macchinario usato per la TAC al cervello del padre del protagonista, l’autore fra i capofila della miracolosa e ormai ventennale Nouvelle Vague locale osserva e scandaglia l’interno più profondo, alla ricerca della malattia nascosta sotto i sintomi più contraddittori del Paese, alla ricerca della sua reale identità fra le mille identità che lo frastagliano, alla ricerca delle cause di un’integrazione fallita nell’arroccarsi dei gruppi etnici e nella loro xenofobia aperta, serpeggiante, inarrestabile. Una Romania che è da sempre molto più argine che ponte fra l’Occidente e l’Oriente, troppo lungamente terra di conquista e di contesa per riuscire realmente a creare insieme una pacifica convivenza, troppo radicata nelle sue intime frammentazioni per riuscire realmente a fidarsi dell’altro, e probabilmente anche troppo ipocrita, ambigua e corrotta per poter sfuggire al suo atavico destino. Mungiu la cristallizza in un minuscolo paesino di confine della Transilvania, un meltin’ pot etnico e multilinguistico, come sottolineato dai differenti colori dei sottotitoli, che ha forse trovato un punto di (in)stabile equilibrio e di reciproca comprensione della babele di linguaggi che vengono parlati, ma mai quello di reale sintesi fra i rumeni della Dacia, quelli ungheresi e quelli tedeschi che lo coabitano. Un paese per molti versi lost in translation in cui anche un «ti amo» quando non viene dal cuore ha lo stesso identico valore di un «è pronto in tavola», su cui il grande autore rumeno, accompagnato dalle musiche già di In the mood for love (2000, Wong Kar-wai), dischiude l’occhio della sua macchina cinema in una per lui inedita sospensione fra realismo e sogno metaforico – o forse sarebbe meglio dire allegorico –, dipingendo sullo schermo una vera e propria parabola sociopolitica fatta di simboli, di precognizioni dell’inevitabile e di ataviche paure di ogni bambino rimasto solo, che porteranno alla potenza onirica e spiazzante del finale.
Il risultato è un film stratificato e ambiziosissimo, di una bellezza disturbante e cristallina, che mette in scena nel consueto nitore dei pianisequenza rumeni (basterebbero i quasi venti minuti in camera fissa della già memorabile scena dell’assemblea cittadina, che in qualche modo con il loro campionario di secolari pregiudizi e di multiformi ipocrisie rilanciano e rispondono, a distanza di un anno, al “processo” scolastico del Bad Luck banging or loony porn di Jude) una storia di emigrazioni e di ritorni, di genie che si scontrano e di continue contraddizioni sociali, di coppie e di generazioni che si sembrano ritrovarsi solo per potersi poi ancora perdere. Una storia, feroce e politicissima, di deliranti sommosse popolari per non far maneggiare il pane o magari scacciare lo straniero «ladro, africano e musulmano» quando magari in realtà è un onestissimo lavoratore dello Sri Lanka e pure cattolico, e di una borghesia imprenditoriale che invece i migranti li assume con il sorriso e che li difende di fronte a chi li accusa di rubare il lavoro, ma in realtà sta difendendo solo il suo diritto ormai acquisito di sfruttarli al minimo sindacale lasciando effettivamente i paesani costretti a loro volta a farsi sfruttare altrove. Una storia di emarginati fieri di emarginare chi sta al di sotto di loro, di penultimi che si scagliano contro gli ultimi rei solamente di essere giunti da est esattamente come i penultimi vanno a loro volta verso ovest, forse senza nemmeno rendersi conto di stare ripetendo esattamente identiche le dinamiche di cui sono vittime nel resto del mondo. Ma R.M.N. è anche una storia di mancanze, di traumi, di tradimenti, di solitudini, di non certo casuali Danze Ungheresi (la numero 5 di Brahms) da provare e riprovare al violoncello prima dei concerti per gli altri ricchi, mentre insieme ai migranti si preferisce suonare con i bicchieri, forse per un inconscio abbassarsi al loro livello, qualcosa di meno “alto” e più popolare, fino a quando dalla loro finestra non irromperà una molotov. Una storia di fucili sempre in spalla e di pericolosi animali selvatici da affrontare, e poco importa se siano reali plantigradi, costumi tradizionali della vecchia Dacia usati un po’ à la The village (2004, M. Night Shyamalan) o ancora la pura immaginazione allucinata di chi è appena rimasto orfano e quindi è in qualche modo è appena tornato bambino: quello che conta è il loro presidiare ancora il territorio, quello che conta è il loro essere nascosti in ogni cespuglio, quello che conta sono le loro lotte fra branchi, quello che conta è lo spavento che incutono in chi li vede o per lo meno crede di vederli. Orsi, pellicce, uomini, animali, Oriente e Occidente. Del resto anche la tradizione può essere feroce come un animale, nel suo insistito chiudersi nei preconcetti rifiutando quasi a prescindere il dialogo con qualsiasi possibile minaccia esterna, e dall’altra parte non meno feroce è stato il tradimento delle promesse non mantenute da parte dell’Europa nel suo solo socchiudere – e forse mai realmente aprire – le porte dell’Ovest alla Romania post-Ceaușescu, definitiva caduta dell’utopia mai realizzata di un Paese che sapesse realmente riconoscersi, ripartire e rinnovarsi.
Non è un caso che sia proprio la battuta razzista di un collega tedesco che dà a Matthias dello «zingaro» l’innesco che accende la narrazione, con la sua testata d’impulso e con la sua fuga dal macello e dalla Germania appena in tempo prima di essere denunciato, e con il suo ritorno a casa fra una moglie che ormai nemmeno lo guarda, un figlio di 8 anni che si sente abbandonato dalla sua assenza e che nella foresta ha visto qualcosa che lo ha spaventato al punto di non riuscire più a parlare, un padre di etnia tedesca diventato narcolettico che non riesce quasi più nei suoi doveri di pastore protestante e un’amante di origine magiara, Csilla, manager del locale panificio industriale in cui lavorano (tanto e bene) i tre immigrati singalesi sempre più pomo della discordia. Eppure sarà proprio Matthias il primo a parlare male degli (altri) «zingari», e non stupirà più di tanto scoprirlo, proprio mentre tiene la mano a Csilla che sta inutilmente perorando la causa opposta, fra i primi firmatari della mozione popolare per scacciare dal paese gli operai dello Sri Lanka. Come se la sua ambiguità e il suo silenzioso razzismo fossero proprio le caratteristiche più fondanti e inestirpabili della natura e dell’identità della Romania, una sorta di eredità storica di quando la mentalità chiusa delle antiche popolazioni di fatto proteggeva l’Europa impedendo ai «barbari» di accedervi. È così che la traiettoria di Cristian Mungiu, pure nella novità delle sue divagazioni stilistiche e simboliche, rimane ancora una volta netta e chiarissima, fra la recita scolastica che già deve far dividere i bambini in rom, slavi, moldavi, transilvani e ungheresi per interpretare i personaggi della Storia, la partita di hockey in cui orgogliosamente travestirsi da orsi, i colpi di fucile per spaventare preventivamente eventuali assalitori e una Bella Ciao che la comunità depotenzia e fraintende in una serata di festa e danza popolare da osteria da cui “gli altri” sono esclusi, mentre appena fuori dalla porta si seminano odio e frustrazione borbottando della mancanza di lavoro e delle assunzioni degli immigrati, ma delle differenze di salario che sono costretti ad accettare sembra che invece non importi minimamente a nessuno: conta solo il colore scuro della loro pelle, che nessuno dei cittadini vuole sapere a contatto con il pane che mettono in tavola. Il resto è semplicemente una scusa, l’ennesima ipocrisia, l’ennesimo pregiudizio, l’ennesima contraddizione. Perfino la morte del resto può essere una contraddizione, una visione non ancora realizzata di fronte a cui smettere di parlare e poi un nonno realmente suicida di fronte al quale ritrovare la parola, «Ti voglio bene papà». Come a dire che forse nemmeno una risonanza magnetica, quale che sia il suo risultato, può rilevare ciò che è cruciale ma non tangibile, perché si trova troppo profondo da qualche parte nel subconscio, nell’anima, nella coscienza, nell’inesplicabile modo di essere. Lo può fare splendidamente, però, il grande cinema.
Marco Romagna