Quo Vadis, Aida? della regista, sceneggiatrice e produttrice Jasmila Zbanić, presentato in concorso alla 77esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, appare una disincantata riflessione sulla fatalità della guerra, sulla sua brutalità. Una cronaca di una morte annunciata che riecheggia con veemenza per tutto il film, senza mai rivelarsi del tutto. Il racconto, coraggioso e rischiosissimo, del massacro avvenuto nel 1995 nella città di Srebrenica in Bosnia ed Erzegovina di oltre 8000 musulmani bosniaci, per la maggioranza uomini e ragazzi, da parte delle forze serbe bosniache: un vero e proprio genocidio accuratamente pianificato nonostante la protezione offerta dalle Nazioni Unite che non seppero opporsi in alcun modo.
Nonostante la tragicità del dramma narrato, quella di un brutale massacro, il film non indulge nella violenza facile o in alcun tipo di sensazionalismo e patetismo, ma esprime un’amara rassegnazione nel rappresentare il dolore soffocato di una popolazione tradita, condannata a morire ingiustamente. Al centro, la lotta di una donna forte e sola, Aida, traduttrice dell’ONU, che oltre a svolgere il suo incarico cerca con tutti i mezzi di salvare la propria famiglia da un destino incombente quanto oscuro, in una corsa contro il tempo incalzante e claustrofobica: un dramma privato che si fa via via sempre più universale e collettivo, e avviluppa lo spettatore in un turbinare di crescente tensione. Aida, donna, madre, moglie, interprete, unica possibilità di salvezza per i figli del suo popolo, unica possibilità di comunicazione tra serbi e olandesi, unica figura di mediazione tra un mondo femminile di valori quali misericordia e giustizia e quello maschile intessuto di violenza e irrazionale egoismo, è portata in scena da una forte ed espressiva Jasna Duričić, che emerge, combattiva e risoluta, nel tentativo di opporsi a un destino inevitabile, mentre gli uomini che le stanno attorno, quelli della sua famiglia così come i militari autoritari che dovrebbero proteggerli, crollano come birilli colpiti dalla forza irrazionale di circostanze avverse. Tutto costruito sulla magistrale prova dell’attrice serba, praticamente sempre seguita da una mobilissima macchina da presa, il film cresce man mano che la tragedia si avvicina: i disperati tentativi della donna si scontrano contro l’intransigenza distruttrice dei miliziani bosniaci, in una catastrofica serie di sfortunati avvenimenti. Dai macchinari che non funzionano, ai telefoni dei militari in carico che squillano a vuoto, all’inesperienza di imberbi giovani mandati in mezzo a una guerra fratricida, il film registra con minuzia ogni dettaglio, ogni dimenticanza o negligenza che ha portato alla morte di migliaia di uomini.
La forza drammatica di Quo vadis, Aida? risiede proprio nel mostrare l’irrazionalità di una tragedia apparentemente evitabile eppure fatalmente inarrestabile. Il dramma è surreale, persino kafkiano, nel mostrare attentamente i dettagli un susseguirsi di piccole fatalità, di meschinità umane e di errori di valutazione, una serie di assurde contingenze dalla tragica conclusione. Come un dramma claustrofobico, il film si svolge per lo più al buio, al chiuso dell’hangar della sede dell’ONU, luogo all’apparenza sicuro ma in realtà labirinto di stanze e cunicoli da cui non si riesce a fuggire, tantomeno nascondersi. Allo stesso modo, questa soffocante corsa contro il tempo non offre possibilità di fuga, non vi è nascondiglio, non vi è salvatore, solo una morte inevitabile che incombe sempre più, che circonda e assedia senza lasciare scampo.
La pellicola denuncia con struggente rassegnazione l’impotenza dell’uomo di fronte a dinamiche e meccanismi, storici e politici, spietati quanto corrotti: a poco valgono i disperati tentativi della protagonista di opporsi a una condanna certa quanto assurda. La regista tesse una durissima accusa nei confronti dell’inettitudine delle forze militari, del tutto incapaci di fermare quel dramma umanitario che si stava consumando davanti ai loro occhi. Una vera e propria denuncia alla vigliaccheria e ipocrisia delle Nazioni Unite che mancarono di rispettare i patti stabiliti, piegandosi facilmente alle minacce e false promesse dei serbi, guidati dal comandante Ratko Mladić, rimanendo indifferenti nell’abbandonare i bosniaci a morte certa.
Jasmila Zbanić gioca con l’assenza: non indulge nel mostrare la violenza, ma ne esplora l’attesa e le dirette conseguenze. Non compare l’assassino e non vi è l’atto, bensì quel destino incombente che diviene forza drammatica: il film racconta infatti un momento di attesa, di impasse, di sospensione appunto, mentre la tragicità dell’evento a venire risiede proprio nella sua fatalità più che nella sua bruta violenza. Allo stesso modo, ne racconta le drammatiche conseguenze, le vite ingiustamente interrotte, ne mostra l’immediatamente dopo, tramite le tante inquadrature di copri massacrati al suolo. Emblematica è l’inquadratura del cadavere di una donna uccisa nel cortile di casa mentre stava cucinando, subito seguita da un primo piano del forno lasciato aperto a sottolineare l’irrazionalità improvvisa dell’evento. Nella pellicola della regista bosniaca, infatti, l’atto violento vero e proprio rimane fuori scena, in una ricerca stilistica che mira alla purezza, a evitare ogni facile sensazionalismo e triviale retorica. Una purezza che viene meno una volta soltanto, in occasione del massacro finale, che la regista volutamente rappresenta fuori scena rievocandolo tramite gli spari spietati delle baionette che squarciano la sonnolenta quotidianità di una cittadina, dove i bambini giocano a calcio e gli anziani guardano annoiati fuori dalle finestre, ma in cui indulge per un attimo nel mostrare direttamente le baionette pronte a far fuoco. Un’interruzione voluta, un’interferenza momentanea in una narrazione per il resto convincente e drammatica al tempo stesso, che non ha bisogno di esasperare o di indugiare nella brutalità del dramma storico di cui racconta ma che è capace di sconvolgere lo spettatore tramite una sapiente ricerca narrativa.
Un dramma che trae forza proprio da una precisa scelta stilistica, quella di evitare ogni facile sensazionalismo, ogni diretta rappresentazione di violenza, per lasciare che sia il fatto di per sé, spoglio di ogni retorica, a travolgere lo spettatore con la sua brutale irrazionalità. Un’assenza che si fa presenza ridondante nelle sue molte implicazioni, negli attimi di sospensione e di attesa che la precedono: nei volti scavati dal terrore dei condannati che si guardano negli occhi e si riconoscono, vicini, familiari, amici per un’ultima volta, consapevoli della loro morte imminente. La vera violenza descritta nel film risiede semmai nella lingua, nelle parole stesse di cui Aida si fa portavoce, nell’impotenza e nell’assenza di giustizia che esse comunicano. Parole di cui lei sola sembra cogliere il vero significato, la tragedia inevitabile cui alludono. È attraverso le parole, le intenzioni mal celate, gli inganni e la mancata comunicazione che si crea quella tela sottile che condurrà, tristemente, a uno dei capitoli più bui della storia europea degli ultimi anni. Quelle parole con cui riflettere amaramente sull’irrazionalità e sulla crudeltà della Storia, capace di intrecciare le vite di vittime e carnefici in modi impensabili, e di gettare un velo di omertà su un massacro tanto terribile quanto crudele. Eppure anche la speranza, una volta ancora, non può che trovare la via proprio nel valore della parola. Una parola nuova, quella comunicata ai bambini, simbolo come sempre di innocenza. Quell’innocenza che Aida, tornata infine a Srebrenica a riprendere il suo ruolo di maestra elementare, tramanderà ai figli degli stessi carnefici, responsabili dello sterminio della sua stessa famiglia.
Anna Chiari