QUI (2014), di Daniele Gaglianone

Qui è la Val di Susa, le aguzze cime imbiancate, il bosco fitto e verde, il sole che fa capolino, brillante tra il fogliame agitato. Il cantiere per il TAV Torino-Lione, protetto da una particolare -dolorosissima- variante israeliana del filo spinato e diversi cordoni di polizia, continua a disboscare e trivellare come se nulla fosse. Fra ignobili cigolii di ferraglia, il vento si insinua freddo fra i macchinari e gli uomini: il suo fischio, eco di Resistenza, risuona ancora e di nuovo nella Valle. Un fischio di rabbia e necessità, non necessariamente collegato a colori politici, ultimo retaggio di democrazia per un Popolo deliberatamente svenduto in virtù di logiche finanziarie.
Lo streaming gratuito di Radio Blackout, un gruppo cattolico di preghiera, un sindaco valsusino, un’anziana proprietaria di agriturismo, una donna sola in piedi che parla pacata ad un’intera falange antisommossa nel loro sdegnoso tentativo di non ascoltarla, una famiglia destinata a morire per l’amianto respinta da una sezione PD, un agricoltore in stampelle accusato e incarcerato ingiustamente, un Carabiniere in congedo ferito dai suoi ex colleghi con un candelotto lacrimogeno -illegale in tutta Europa, in dotazione in Italia- sparato ad altezza uomo: ecco i ‘pericolosissimi facinorosi’ no-TAV. La voce della Val Susa, persone normalissime, padri di famiglia e madri preoccupate, di fronte ad un progetto inutile, assassino, fatto di gare d’appalto poco pulite, disinformazione selvaggia e legalissimi abusi di polizia.

Qualsiasi persona si sia minimamente informata sull’argomento TAV ha perfettamente chiara l’inutilità dell’opera, il sottoutilizzo della linea già esistente, la strettezza angusta della Valle, la presenza di fortissime quantità del cancerogeno amianto nella composizione della montagna sulla quale agisce la trivella, il ritiro dei fondi e il blocco dei lavori per la parte francese, l’irregolarità più che presunta nelle gare d’appalto, paragonabili alla tela di Penelope della Salerno-Reggio Calabria. Qui è in gioco la vita delle persone, Qui è in gioco il concetto stesso di legalità, per chi abita la Val di Susa, per chi vive un’opera così invasiva, per chi si muove per coscienza civica. Il TAV è la barriera di filo spinato che circonda il cantiere: da un lato i cittadini, e la loro inascoltata battaglia democratica per vedere rispettata la Costituzione; dall’altro le istituzioni, sorde alle richieste della popolazione e pronte a rispondere con il lancio di gas lacrimogeni cancerogeni. La giustizia e la legge diventano paradossalmente entità ossimoriche, in lotta fra di loro, nella barbara negazione legalizzata dello stato di diritto.

Daniele Gaglianone, classe ’66, nativo di Ancona ma assoluto torinese d’adozione, torna al suo cinema più duro, politico e idealista, confermandosi uno dei migliori registi italiani in attività. Qui è un film documentario girato nel corso di due anni, passeggiata in punta di piedi nei meandri umani e politici che abitano una montagna ferita, riscoperta per Gaglianone della vena partigiana che da sempre accompagna la sua importante quanto sottovalutata produzione. La mente corre al cortometraggio sperimentale L’orecchio ferito del piccolo comandante (1994), ma ancor più allo splendido I nostri anni (2000): racconti di montagna, di morte, di fuochi, di fame e di Resistenza.
Ripensando alla filmografia di Gaglianone, appare evidente la sua nobile tendenza, quasi herzoghiana, alla contaminazione fra documentario e fiction, che parte dal kino-pravda di Rata Nece Biti – La Guerra non ci sarà (2009) per giungere alla finzione di Pietro (2010), passando per il metacinema de La mia classe (2013), nel quale la troupe entrava letteralmente nella vicenda, spostandosi dalla fiction in una scuola per extracomunitari alla narrazione delle difficoltà nel girare con loro, uomini senza terra avviluppati in una giurisprudenza claudicante.
Qui, presentato nella capitale sezione Democrazia di TFFdoc, è un documentario di militanza sociale e solidarietà, costruito sui personaggi che abitano e difendono la propria casa. Il regista è intelligente nel dribblare facili impeti giornalistici, evitando accuratamente di spiegare il progetto TAV o la manifesta inutilità dello stesso. L’obiettivo di Gaglianone non è quello di una mera cronaca televisiva, non è necessariamente spiegare, né tantomeno fare semplice retorica: Gaglianone regala puro Cinema, mostrando l’umanità di un Popolo in lotta.

Come il già citato Rata Nece Biti indagava la voglia di far cicatrizzare le ferite ancora aperte dal conflitto jugoslavo, perchè la Bosnia potesse iniziare a camminare con le sue gambe, attraverso una carrellata di dieci personaggi, Qui si insinua dolcemente nella vita e nella militanza dei valsusini che si vedono privati dei più essenziali diritti democratici. I personaggi sono soli nell’eterogeneità delle reti solidali e nel linguaggio cinematografico, asciutto e discreto, con la macchina da presa quasi invisibile: non si alternano, non si inseguono. Si succedono, uno ad uno, ognuno con la propria dignità, con la propria storia, con le proprie motivazioni. Nella voce e negli occhi degli intervistati emergono i pestaggi gratuiti sui manifestanti, Luca che cade dal traliccio senza che i lavori vengano fermati, le forze dell’ordine svuotate della dignità umana, pronte ad eseguire ordini criminosi senza neanche chiedersi il perché, l’inutilità di un’arringa che cerca con calma di farli tornare uomini. Il carabiniere in congedo imbarazzato con il figlioletto nel distinguere la ‘polizia buona’ dalla ‘polizia del TAV’. Emerge la forza del sindaco di Venaus, rappresentante delle istituzioni, che diventa deliberatamente un manifestante nel vedere i diritti dei suoi cittadini calpestati. Emergono le risposte sprezzanti e spiazzanti del PD, ‘respirate amianto anche piantando le patate, non rompeteci i coglioni’, sparate in faccia a chi semplicemente chiedeva delucidazioni sul futuro della propria casa, estromessa dal plastico. Emerge un progetto che, già sulle carte approvate, prevede un forte incremento dell’incidenza tumorale, in totale ripudio dei diritti umani -a partire da quello alla vita- in favore di logiche economiche squallide, clientelismo e appalti riciclati da altri lavori. Emerge una struttura idrogeologica che si basa su innumerevoli minuscoli rivi, che verrebbero prosciugati o deviati con incalcolabili ripercussioni sull’agricoltura, sul rischio di frane, sull’equilibrio biochimico. Emerge la distruzione di un ecosistema, emerge la cancellazione sistematica delle voci contro, emerge uno stato di polizia, malafede ed indecenza mediatica.

Gaglianone è meno sperimentale di altre volte, ma di una profondità sublime. Qui è un pugno nello stomaco, pronto a sezionare il peggio dell’Italia senza mai cadere nella retorica. Un film documentario eccezionale, emozionato ed emozionante, necessario, che arriva dritto alla testa e al cuore. Fra le visioni più confortanti dell’anno, e non solo. Daniele Gaglianone restituisce la realtà senza filtri, necessariamente schierato ma non -a differenza mia- fazioso, in un lungometraggio che dimostra ancora una volta quanto non sia necessaria una sceneggiatura perfettamente delineata per giungere alla sfera sociale, politica ed emozionale. È un film profondamente onesto e sincero, frutto di una sete ancestrale di giustizia, lampo di luce in un Paese culturalmente brutalizzato da venticinque anni di donnine succinte viscidamente sparate in televisione perché gli spettatori potessero smettere di pensare. A causa dell’argomento trattato e delle ripetute stoccate alle colpevoli istituzioni, avrà non pochi problemi ad essere distribuito. Ma anche a questo, purtroppo, Gaglianone è abituato. Da vedere, rivedere, studiare, per risvegliare le coscienze.

Marco Romagna