PROTOTYPE (2017), di Blake Williams
Sarebbe spesso estremamente interessante pensare al cinema come a un’arte nella sua infanzia continua, come nella sua possibile deriva che si appoggia a linguaggi mai determinati e continuamente aspiranti a un punto di fuga. Nella, seppur breve, filmografia di Blake Williams, giovane artista di Houston ora basato a Toronto, lo studio e la ricerca sulla stereoscopia va ben oltre la semplice indagine formale, ma assume il senso più libero di una costruzione attraverso un approccio che assorbe elementi astratti per delineare coordinate possibili di narrazione. Dopo una lunga serie di corti, di cui quattro tridimensionali, questo Prototype presentato fuori concorso a Locarno70, più che un esordio al lungometraggio, appare come un’opera modulare e polimorfa, che assembla in maniera estremamente anarchica una serie continua di percezioni in un magma di immagini difficilmente classificabili. Le uniche coordinate spazio-temporali che abbiamo ci portano in Texas (precisamente a Galveston) nel settembre del millenovecento, quando durante una violentissima tempesta qualche sconosciuto sperimenta un misterioso congegno simile alla televisione, qualcosa di ancora improvvisato che servirebbe a trasmettere sorgenti video. Questo punto di partenza, che parrebbe totalmente arbitrario, non concede nulla all’analisi possibile del soggetto, ma ne delimita unicamente il campo d’azione (dell’azione stessa, in un certo senso), legato a un fatto storico che appartiene alla realtà di un luogo, tentandone di registrare e verificare la propria resistenza nella durata. Tutto ciò che vediamo, in questa sessantina di minuti o poco più, è come se fosse solamente una propagazione incertissima, o forse unicamente una possibilità ancora più fragile.
Prima il documento. Nell’apertura del film una carrellata di immagini stereoscopiche del disastro, prospettive forzatissime, elementi che si avvicinano allo spettatore evidenziando i danni dell’uragano, frammenti materici di corporeità strappata alla vita. L’immagine così inizia a muoversi e incresparsi, fluttua come le onde del mare appena violato, si trasla lentamente in qualcosa che non pare più comprensibile ai nostri occhi. Poi la sorgente. Emerge uno schermo, più schermi, infiniti schermi, che delineano la forma e il volume del racconto, trasmettono inserti, archivi, documenti. Le sorgenti si moltiplicano, quasi a dialogare tra di loro a ricreare una sintassi spuria e astratta dall’evento, dall’atto. Schermo nero, didascalie, mancanza di segnale. Ciò che rimane della rappresentazione resta sempre di più difficile catalogazione, scompare il contenitore, rimane il contenuto, sempre più ammassato e slabbrato, apparentemente ferito, continuamente legato a esperienze di pre-cinema (la cronofotografia, soprattutto) come a qualcosa che possa rappresentare un futuro sconosciuto (lo spettro video di un’onda aliena dal nostro sistema, forse). In chiusura si torna al mare, tornano acqua e onde di una marina sublime e potentissima. La paura oramai è distante, i colori vividi e sovraesposti, la quiete forse ha lo sguardo del vuoto, di qualcosa che continuamente può sfuggire ai nostri occhi, come ai nostri sensi, quasi cancellandolo. Il rituale è compiuto, e lascia un senso di stordimento e di fascino assimilabile a ciò che poteva aver rappresentato proprio la tempesta.
Girato a bassissimo costo (con due GoPro ed una Fujifilm FinePix REAL 3D W3) e mediato da un grande lavoro in post-produzione, Prototype tenta di descrivere la sedimentazione di una realtà storica naturale attraverso una ricerca formale su un luogo, cercando una sua verifica degli effetti. Potrebbe inserirsi in un percorso di sviluppo e di tematica che oscilla tra Ken Jacobs (maestro pioniere della stereoscopia) e Travis Wilkerson (la coscienza della trasmissione di segnali), ma allo stesso tempo scava sui limiti della rappresentazione e sui bordi dell’astrazione, cercando in maniera assolutamente originale possibili sviluppi dello strumento tridimensionale. L’aumentare della distanza (e della quasi impossibilità) che si pone tra l’occhio e lo schermo, come tra lo spettatore e l’immagine, pare spesso fastidiosa e irritante, ma non fa altro che sperimentare un tentativo di visualizzare i volumi e la profondità di un tempo diventato scultoreo quanto materico nella sua essenza più concreta. Come se fosse la luce pulsante ad essere trasformata, ciò che assorbe e ciò che riflette. Allo stesso modo questo è un film che si interroga in maniera quasi drammatica sulla persistenza di un momento in un luogo, analizzando la voragine che si pone tra la memoria e la mente, il modo in cui essa viene trasformata e catalogata. Spesso, del nostro passato, rimane solamente una selva di significanti senza significato, sotto forma di frammenti e impulsi, un’immagine che si corrode pian piano, che perde la sua forma fino a sciogliersi nell’oblio. Williams, in tutto ciò, non fa altro che scavare nelle testimonianze di un fenomeno, costruendoci uno splendido e inaspettato viaggio ipersensoriale, fondendo complesse estetiche digitali con tecniche ottiche analogiche, portandoci a vivere l’estrema e viva provvisorietà (la stessa dell’opera) dell’attraversare un paesaggio con la nostra percezione.
Erik Negro