PROFESSOR MARSTON AND THE WONDER WOMEN (2017), di Angela Robinson
Il caso vuole che Professor Marston and the Wonder Women, secondo lungometraggio della regista Angela Robinson (ha esordito con Herbie Fully Loaded, commedia disneyana con protagonista Lindsay Lohan, e poi lavorato a serie televisive come The L Word e True Blood), debutti nello stesso anno di Wonder Woman, il cinecomic al femminile realizzato da Patty Jenkins. Prima abbiamo avuto il debutto da protagonista della più nota supereroina del fumetto americano, creata nel 1941 ma assente dal cinema fino al 2016 (Batman v Superman: Dawn of Justice), mentre a fine anno, complici festival come Toronto e Torino (dove il film è stato presentato in anteprima italiana nella sezione Festa Mobile) è toccato al racconto della nascita artistica del personaggio. Un racconto affascinante e dal grande potenziale cinematografico: la principessa amazzone è nata dalla fantasia di William Moulton Marston, insegnante di psicologia che per le avventure di colei che inizialmente doveva chiamarsi Suprema (Wonder Woman era solo un epiteto, come Man of Steel per il coevo Superman) si ispirò alla propria vita, per l’esattezza al curioso ménage à trois tra lui stesso, la moglie Elizabeth e la studentessa Olive Kirby, con l’aggiunta delle sue teorie accademiche sulla superiorità delle donne e le sue ricerche sulla misurazione della sincerità delle persone, tanto che il film gli attribuisce in toto, ed erroneamente, l’invenzione della macchina della verità da cui trasse ispirazione per l’arma prediletta dell’eroina. Il contrasto tra i due film è ulteriormente ampliato dal bacino d’utenza: Wonder Woman, come la maggior parte dei film di supereroi, si rivolge a un pubblico variegato di tutte le età, mentre Professor Marston and the Wonder Women è un prodotto non certo di nicchia ma meno smaccatamente popolare, destinato a spettatori adulti se non altro per via del contenuto sessuale che ruota intorno al bondage e alle pratiche sadomaso, seppure con una morigeratezza – solo Luke Evans, nei panni di Marston, si spoglia, mentre Rebecca Hall e Bella Heathcote rimangono vestite anche nei momenti più hot – che certo non denota particolare coraggio.
Anzi, probabilmente è proprio il pudore così smaccatamente esibito dalla regista a costituire l’elemento più problematico di Professor Marston and the Wonder Women, o per lo meno la cartina di tornasole più efficace dei suoi (tanti) problemi. Quello della Robinson è un film che di per sé intrattiene e a tratti diverte, permettendo di passare un paio d’ore spensierate, ma non scava abbastanza nel profondo per quanto riguarda la relazione tra sesso, editoria e discriminazione, in un rifuggire il torbido per il quale le occasionali concessioni al materiale più adulto, in primis la signora Marston che usa la parola fuck in tutte le accezioni possibili, risultano quasi stranianti. Quello della Robinson è un puritanesimo d’interesse, attenta a fare in modo che il film possa trattare argomenti scabrosi senza mai diventare “scomodo”, e quindi censurabile e ostracizzabile: il cinema-industria, in un certo senso, fagocita il cinema-arte, attento a non pestare piedi né a far storcere nasi a costo di appiattire l’immaginario e l’autorialità, e il film inevitabilmente finisce, al di là della curiosità biografica, per accartocciarsi su se stesso. Del resto, anche la cornice narrativa è tutto sommato maldestra e superficiale, costruita come una sorta di udienza sui contenuti “osceni” dell’opera del professore. Che poi nient’altro sarebbe che l’antefatto di ciò che accadde nel 1954 con la pubblicazione di Seduction of the Innocent, il libro che prese di mira il fumetto americano in toto come elemento dannoso per le menti giovani (l’autore Fredric Wertham sostenne, tra le altre cose, che Batman e Robin fossero legati da un rapporto omoerotico e che Superman fosse una figura fascista), e che portò alla nascita del Comics Code Authority, l’organo di censura dell’industria che rimase in vigore per decenni. È una contestualizzazione storico-artistica, questa, fondamentale, che sarebbe stata dovuta, ma che nel film manca completamente, anche nelle obbligatorie (e forse un po’ telefonate) didascalie finali che si limitano a riassumere ciò che rimase delle vite dei tre “coniugi” Marston – lui morì di cancro nel 1947, sei anni dopo il debutto cartaceo della sua creazione.
Tutto, in Professor Marston and the Wonder Women, è solo evocato o suggerito, dalle scene di sesso ai vari aspetti dell’iconografia di Wonder Woman (ma in quest’ultimo caso è presumibilmente una questione di diritti d’autore, essendo lei proprietà della Warner Bros. e il film della Robinson una produzione Sony Pictures), senza lasciare agli elementi il tempo per respirare come si deve e chiudendo la storia in meno di due ore (108 minuti, titoli di coda compresi), laddove i vari adattamenti delle avventure dei supereroi DC e Marvel tendono a superare tale soglia. Data la natura seriale del materiale di partenza viene spontaneo pensare che una struttura catodica, sotto forma di miniserie per le emittenti via cavo (HBO, Showtime) o le piattaforme di streaming (Netflix, Hulu, Amazon), sarebbe stata probabilmente una scelta più auspicabile, data la quantità di fili narrativi e tematici da connettere e seguire nel voler ricostruire la vita di un uomo complicato e affascinante come William Marston. D’altro canto, sempre rifacendoci al modello dei cinecomics, qualora Professor Marston and the Wonder Women facesse da apripista a un nuovo filone di biografie audiovisive delle grandi firme del fumetto, sarebbe facile guardare al lavoro della Robinson come a un esempio di ciò che può, anzi deve, essere migliorato. E in tal senso è comunque notevole che il primo lungometraggio di finzione dedicato a un creatore di supereroi sia basato sull’autore di Wonder Woman e non su gente più nota come Bob Kane, che passò gran parte della propria vita a prendersi tutto il merito per la paternità artistica di Batman lasciando Bill Finger nell’anonimato generale fino al 2015, o Jerry Siegel e Joe Schuster, le cui dispute, ora postume, con la DC riguardo il copyright di Superman non sono ancora del tutto finite. Quello di Professor Marston and the Wonder Women è quindi un primato imperfetto, ma è pur sempre un primato, di per sé degno di nota in un panorama cinematografico dove la mentalità del patriarcato rimane tuttora problematica. Anche se il biopic in sé, con una simile vita di partenza, avrebbe potuto fare molto di più e meglio. Ma ha avuto paura di osare, e questo è il più grande rammarico.
Max Borg