Era ormai la seconda metà degli anni Trenta quando nell’Unione Sovietica già irrimediabilmente corrotta dall’arrivismo politico e dalla ferocia di Stalin si tennero i maxiprocessi-farsa delle Grandi Purghe, con cui il regime cristallizzò anni di repressione nella sistematica eliminazione fisica degli avversari politici con false accuse, confessioni estorte tramite tortura, giudici tutto fuorché imparziali e il famigerato articolo 58 dell’allora Codice Penale della Repubblica Socialista Federativa Sovietica di Russia, che con i suoi quattordici commi volutamente generici in modo da favorire l’accusa prevedeva una disarmante facilità nell’elargire la pena di morte. Fu una delle pagine più nere del regime, con centinaia di compagni totalmente estranei alle accuse fucilati, con un terrore crescente destinato a trovare la punta del suo iceberg nel ’37, con la menzogna ostentata fino a diventare unica possibile verità. Ma non è sui processi più o meno noti al mondo che si sofferma lo sguardo del regista ucraino e sempre più smaccatamente antirusso/antisovietico Sergej Loznitsa nel suo nuovo e non esattamente imperdibile Process, presentato fuori concorso a Venezia come terza fatica annuale dopo il documentario berlinese Den’ Pobedy e la finzione di Donbass apertura di Un Certain Regard a Cannes. Un sistema perfetto e spietato come quello dei processi della Ežovščina, del resto, rigorosamente presieduti dal fedelissimo giurista stalinista Vasilij Ulrich e conclusi con lo sterminio di chiunque (dal trockista convinto a chi per un qualsiasi intoppo si ritrovava a non aver raggiunto proprio tutti gli obiettivi produttivi del Piano Quinquennale in corso) non fosse perfettamente allineato al regime, non si elabora certo senza averlo prima pianificato e collaudato, e il Process secondo Loznitsa entra proprio qui, nel rimosso che venne prima del conosciuto, nelle prove tecniche che già nel 1930 anticipavano le Purghe, entrando ancora una volta negli archivi per riportare la memoria a quel momento in cui, inventandosi di sana pianta il coinvolgimento di un nutrito gruppo di ingegneri ed economisti nell’inesistente “Partito dell’industria” accusandoli di aver ordito un colpo di Stato in combutta con il primo ministro francese Poincaré, il potere di Stalin riuscì a far loro confessare crimini mai commessi e a condannarli alla pena capitale.
Peccato solo che, a tre anni dall’ultima incursione in archivio con quel The Event che montava straordinari materiali mai visti per riportare sullo schermo i giorni della caduta dell’Unione Sovietica, Process sia a stento definibile un lavoro di Loznitsa. Al di là della ricerca che ha fatto riemergere le pellicole originali dal dimenticatoio, l’intervento dell’autore si limita infatti a una coda finale che riprende i volti e i nomi dei condannati per ribadire il loro vero destino – chi a sorpresa amnistiato, chi incarcerato a vita o per lunghissimi periodi, chi scomparso nel nulla e chi effettivamente giustiziato, ma solo dopo anni di lavoro più o meno forzato per il governo sovietico – e per affermare come nulla della tragica realtà vista sino a quel momento sullo schermo fosse realmente verità. Questo avviene, però, solo dopo la riproposizione integrale di un documento (che non è un documentario e probabilmente nemmeno un film, ma una sorta di materiale grezzo oltremodo prolisso e tedioso nel suo mostrare integralmente gli interrogatori tutti uguali degli otto imputati) già concluso e montato al tempo come pellicola di regime, comprensivo della lunga introduzione su Mosca all’arrivo degli accusati e delle manifestazioni di piazza inframezzate agli interrogatori in cui il popolo, (già) sobillato dalle menzogne governative e mediatiche, chiedeva giustizia contro quei «filocapitalisti» che avrebbero minato l’ideale socialista. Un’operazione che, ben al di là dei dubbi politici ormai purtroppo consueti sul Loznitsa post-rivoluzione ucraina che questa volta rimangono a latere (nemmeno i più faziosi e idealisti possono esimersi dal condannare le derive dello Stalin di quegli anni) e di quelli etici sui diritti morali degli autori su cui in un simile caso, per quanto la firma esclusiva di Loznitsa messa in calce al lavoro anche e soprattutto di altri non sia propriamente elegantissima, si potrebbe anche soprassedere, lascia diversi dubbi anche sul suo stesso senso.
Se infatti è chiaro e lampante come il film voglia ragionare sulla menzogna (politica e cinematografica) costruita ad hoc per offendere, sovrapposta alla realtà fino a fagocitarla e, nella rimozione generale, ancora integralmente conservata nella (sempre fondamentale anche quando molto poco godibile) memoria degli archivi mostrando oltre due ore di “documentario” in cui ogni fotogramma è una bugia e una costruzione imposta dal regime, convince decisamente meno la scelta di Loznitsa di non intervenire in alcun modo sulle immagini del tempo, lasciandone intatte tutte le ripetizioni, tutti gli arzigogoli processuali e tutti i tecnicismi dei teste pressoché incomprensibili per chiunque non sia ingegnere o economista, o tutt’al più brillante giurista. Avrebbe quindi forse avuto più senso come installazione museale che come opera cinematografica questo Process, (non) film in sostanza trovato già pronto da Loznitsa, ripulito e riproposto in tutta la sua negazione della Storia, in tutta la sua fluidità che a volte si fa sgangherata, in tutti i momenti in cui l’audio perde il sincrono e nella caducità del supporto originale, in cui non mancano istanti in cui l’immagine si fa più sgranata e quasi svanisce nei contrasti perduti per poi tornare solo qualche giro di bobina dopo alla sua piena forza. Certo, qualcosa nel film di Loznitsa si può anche trovare. C’è il discorso sugli archivi, sulla memoria e sulla museificazione che il regista porta avanti da più o meno tutta la carriera, c’è l’immersione di due ore nell’Unione Sovietica del tempo e nelle sue derive più tiranniche, c’è la pressione esercitata sugli imputati perché confessassero calunnie come agghiacciante esempio delle ossessioni staliniane, e durante i momenti di maggiore noia si ha l’occasione per staccarsi dal film e dalla Storia per ritrovarsi a riflettere sul supporto in pellicola, sull’immagine, sulla sua conservazione e sul suo insito potere iconico e storico. Ma non basta. E quello che c’è intorno, sepolto da quasi novant’anni e ai limiti dell’insostenibile, siamo sicuri che valesse davvero la pena di ritirarlo fuori?
Marco Romagna