Ennesimo capitolo di una filmografia tra le più tematicamente compatte del cinema statunitense contemporaneo, Priscilla è la nuova opera diretta da Sofia Coppola, selezionata per il Concorso ufficiale alla Mostra del Cinema di Venezia 2023. Un cinema di protagoniste, in conflitto con la società in cui vivono e con gli usi e costumi della massa, che lottano, nel loro privato, per la propria realizzazione personale che, di riflesso, diventa anche simbolo di emancipazione collettiva. La figlia del grande Francis Ford è una riformista, non una rivoluzionaria, anche per onestà intellettuale e mancanza di ipocrisia vista la classe sociale d’appartenenza, e d’appartenenza per diritto di nascita prima ancora che per successi professionali. Un privilegio interiorizzato come horror vacui se non proprio come senso di colpa, e una sensibilità artistica non comune, dispiegata tra i rovelli interiori di Maria Antonietta d’Austria come in quelli di una giovane ragazza perduta in un mondo alieno (la Tokyo di Lost in Translation, il suo maggior successo di pubblico e critica), delle “vergini suicide” e di una comunità di donne sole durante la Guerra di Secessione alle prese con un intruso (L’inganno, miglior regia a Cannes 2017). Qui a Venezia, nel 2010, trionfò con Somewhere, il suo film probabilmente più controverso e l’unico con un protagonista maschile, la star hollywoodiana sfatta e depressa interpretata da una star hollywoodiana altrettanto sfatta e depressa, Stephen Dorff. Anche sceneggiatrice di tutti i suoi film, ha attraversato la show business in tante vesti: dalle discusse prove attoriali in alcuni film del padre, Il padrino – Parte III su tutti in sostituzione di Winona Ryder, alla presenza sulle cronache rosa grazie alle sue relazioni sentimentali con colleghi cineasti come Spike Jonze e Quentin Tarantino, fino alla regia di storici videoclip per Chemical Brothers e White Stripes. Sofia Coppola conosce benissimo il mondo in cui si muove e racconta storie dove ci permette di entrare a sbirciare nelle stanze esclusive e alto borghesi, renderci conto delle miserie e delle piccolezze morali di chi ci abita, e uscire (un po’) rinfrancati dall’altra parte. Quale storia migliore, dunque, di quella di Priscilla Beaulieu in Presley? Occasione di entrare a Graceland, di squadrare l’Elvis privato e la sua corte. Ma anche occasione parzialmente sprecata, purtroppo, e vedremo qui di seguito il perché.
La storia (tratta dal libro autobiografico scritto proprio da Priscilla con la ghostwriter Sandra Harmon, Elvis and me) parte nella Germania dell’Ovest di fine anni Cinquanta: il re del rock sta svolgendo il servizio militare in una base in terra teutonica, e lì incontra, e s’innamora di, una giovanissima adolescente, figlia di un graduato e ivi residente con tutta la famiglia nelle casette a schiera che replicano alla perfezione la classica suburbia americana, con tanto di scuola adiacente esclusiva per i figli dei militari. Con il solito tocco leggero proprio della cineasta, è già tutto qui: un microcosmo fuori dalla realtà, e la mancanza d’integrazione di americani che non riescono a non replicare fuori dai confini esattamente le proprie caratteristiche culturali peculiari, senza innervarle e mischiarle in nessun modo con il tessuto locale. La società dello spettacolo è onnipresente: al severo padre quello di sua figlia con Elvis, nonostante l’imberbe età, sembra un “buon”matrimonio, il massimo obiettivo possibile per una ragazza borghese dell’epoca. La prigione dorata di Graceland sarà il futuro che attende Priscilla per tutti gli anni Sessanta e buona parte dei Settanta, mentre fuori tutto cambia, il marito Elvis sale e scende di popolarità pilotato dal colonnello Parker (interpretato da Tom Hanks nel consigliatissimo Elvis di Baz Luhrmann, di cui questo film rappresenta una sorta di controcanto) e le strade delle grandi città sono teatro di aspri scontri per tutte le rivendicazioni che ben conosciamo, dai diritti civili della comunità afroamericana ai movimenti pacifisti che chiedono il ritiro dal Vietnam. In questo clima Elvis non sa più cosa vogliono i giovani, e comunque di sicuro non lo sa il truce colonnello, più imbonitore che impresario, una razza in via d’estinzione; a Graceland gli anni Cinquanta non sono mai terminati.
Sofia Coppola costruisce la sua coppia di protagonisti prima di tutto in opposizione fisica: Elvis è il gigantesco Jacob Elordi, Priscilla la minuta Cailee Spaeny, entrambi giovani e con poca carriera alle spalle, poco conosciuti dal pubblico e che quindi possono agevolmente “scomparire” all’interno dei personaggi. Il cinema è anche (soprattutto?) questo, corpi in movimento che creano significante al solo incedere e interagire: OGNI scatto di rabbia di Elvis, e ce ne sarà più d’uno, usa questa opposizione per aumentare il pathos su schermo. Purtroppo, e qui cominciano le note dolenti, usa quasi soltanto questo: il film nella seconda parte, quando i nodi dovrebbero venire al pettine e i conflitti esplodere, diventa esangue, tira il freno a mano, si fa forte di un’unica idea registica e narrativa, la reiterazione di situazioni che porteranno, quasi naturalmente, Priscilla a decidere di scappare. Un vero peccato e forse anche un po’ di colpa della longa manus della vera Priscilla, tra i produttori e probabilmente attenta a non concedere una visione troppo “embedded” e pruriginosa, ottenendo, come si è già detto poco sopra, l’esatto contrario. Ci viene restituita l’immagine di una casalinga anni Cinquanta, pluritradita da un compagno che la “usa” solo come incubatrice prima e levatrice poi, che le nega il piacere sessuale rifiutandosi persino di ammetterne l’esistenza, che non è altro che un bambinone mai cresciuto in un mondo di squali e schiavi (sottilmente inquietanti tutte le sequenze in cui la crew di Elvis di amici e galoppini sovrasta la piccola Priscilla, che è presente ma assente, un gruppo di idioti perennemente impegnato in scherzi da caserma e prove “machiste”): l’abbiamo vista centinaia di volte al cinema e in Tv, e l’eccezionalità dei personaggi coinvolti non basta ad evitare una fastidiosa sensazione di deja vu. In conclusione, siamo abbastanza delusi perché chi scrive ripone sempre grande fiducia nello sguardo registico di Sofia Coppola, peculiare e visivamente non omologato. Proprio la peculiarità dello stile narrativo, però, questa volta rappresenta una zavorra per il progetto: siamo sicuri che la quotidianità noiosa e reiterata sia orrorifica di per sé, ma questa volta (come un po’ in Somewhere, dove però forma e contenuto rappresentavano un blocco unico e compatto, anche se iperdilatato rispetto al materiale effettivamente a disposizione) lo scatto non basta, e le immagini (comunque a tratti strepitose le scelte fotografiche di Philippe Le Sourd, alla terza collaborazione con la regista), una volta imprigionati insieme a Priscilla nel villone di Memphis, non debordano dallo schermo per restituire allo spettatore lo spaesamento prima e la muta disperazione poi. La mancanza poi dei brani di Presley (in un film che lo ritrae così possiamo anche capire la ritrosia degli eredi a concederli o della stessa produzione a chiederli) si sente eccome, inutile negarlo, e restituisce una volta di più la sensazione che Priscilla, con le sue premesse e con l’indubbio talento in gioco, si sarebbe potuto spingere ben oltre, verso un film assai migliore di questo.
Donato D’Elia