PRANK (2016), di Vincent Biron
Forse il difetto più facile da notare di Prank del canadese Vincent Biron non è un difetto interno quanto un difetto esterno, legato alla sua programmazione nella logica delle proiezioni della Settimana Internazionale della Critica qui a Venezia: Prank infatti era preceduto dal cortometraggio Colazione sull’erba di Edoardo Ferraro, che in uno scarso quarto d’ora a ritmo rave dà una profonda dimostrazione di quel moralismo cinematografico anti-nuove generazioni, critico e involontariamente fascista, quel cinema contro cui si scagliano film come Spring Breakers (2012); un qualcosa dunque che non è degno di essere commentato oltre la necessaria denuncia di quanto sia inutile criticare la superficialità e la volgarità dei giovani in un’epoca che è già di per sè superficiale e volgare, loro (o noi) vogliono (o vogliamo) solo vivere. Ma, considerando come spesso i corti messi prima dei film della SIC sono pertinenti con i lungometraggi, non si poteva che essere subito intimoriti. Fortunatamente, la pittorica cattiveria di Ferraro è sostituita in Prank, nel trattare sostanzialmente lo stesso tema (ovvero la deriva etica e la desensibilizzazione della gioventù), con una dolcezza e una sensibilità che riescono anche ad eliminare l’onnipresente rischio del film da Sundance.
Prank parte da un presupposto narrativo molto semplice: il protagonista è Stefie, uno stereotipato ragazzino triste, solitario, annoiato e grassottello, incapace di legare con gli altri e connesso nella propria routine solo ad una pallina da baseball (che lancia ossessivamente contro un muro) e ad un oboe che suona goffamente. Un giorno la sua routine viene interrotta da tre “dei ex machina”, Martin, Jean-Sé e la bellissima Lea, interpretata da Constance Massicotte, già personaggio indie dell’anno, una sorta di Ramona Flowers (Scott Pilgrim vs. the World, Edgar Wright, 2010) piena di sconforto e tendente alla tossicodipendenza. Il gruppo è particolarmente affiatato e ha come principale hobby quello di fare “scherzi” più o meno surreali alle persone a giro per la loro piccola cittadina di provincia; ma Stefie si innamora di Lea, che è fidanzata con Martin. In Prank i genitori sono assenti, esiste solo la gioventù, ma non è una gioventù di cui il film si fa manifesto (e lo dice il regista stesso), è solo una storia incentrata sui drammi e sugli scherzi di un gruppo ristretto di personaggi ‘teen’ in un mondo ‘teen’. La storia d’amore impossibile è solo un dolce, stereotipato, tenerissimo contorno a quello che in realtà si presenta come un commento sensibile e appassionato (con leggerezza, moderatezza e amore) su un fenomeno culturale sempre più diffuso su quella piattaforma video ormai riconosciuta a livello mondiale che è YouTube: gli scherzi gratuiti. C’è chi lancia coriandoli brillanti su di una coppia in procinto di lasciarsi, c’è chi mette tre manichini in posizioni sessuali in Chiesa, e c’è Lea che è l’unica che ha il coraggio di defecare sul cofano della macchina di un uomo che, dal veterinario, ha appena scoperto che il suo gatto sta per morire, e così via, con momenti più o meno surreali. È un fenomeno che è necessario analizzare perché i giovani che fanno questo tipo di intrattenimento video sono giovani noncuranti di regole di educazione o rispetto, sono semplicemente persone che si vogliono divertire, persone che vogliono vivere la propria vita e solo e soltanto la propria vita. Come dice Jean-Sé, la loro quotidianità è pericolosa; ma loro, individualisti o anarchici o semplicemente non schierati e incapaci di schierarsi, sono strafottenti, si divertono, ed è impossibile criticarli davvero. Su YouTube è ormai invece sempre più diffusa la critica ai “pranksters” più finti: c’è gente come Chris di PrankInvasion che usa la parola “prank” semplicemente per la popolarità web e invece costituisce sostanzialmente una specie di pornografia ‘legale’ per YouTube, atta solamente a quei pochi che possono davvero credere che la sua capacità di andare a pomiciare con sconosciute per strada sia un dono invece che un qualcosa di finto e recitato; oppure, sia in Italia sia all’estero, c’è chi semplicemente usa la scusa dell’esperimento sociale per fare la morale ai normali ignoranti per strada, e spesso anche in questo caso fingendo i risultati per avere maggiore popolarità – intrattenimento, dunque, eticamente bassissimo. YouTube è ormai una piattaforma più dignitosa per coloro che destrutturano questo mondo o lo criticano direttamente, gente come Ian Carter (nome online: idubbbz), George “Joji” Miller (detto anche Filthy Frank) e i coniugi Ethan e Hila Klein di h3h3 productions, tutti youtuber che sono riusciti a creare talmente tanti livelli di ironia (tanto con la loro recitazione corporea quanto con il montaggio) da aver reso questa sorta di grottesca e spesso disgustosa critica sociale un media a parte, con la sua profondità, il suo umorismo, la sua importanza nella società odierna. Ma anche con loro, in particolare con Ethan Klein, a volte subentra il dubbio: che stiano facendo la morale ai “pranksters”, che stiano democratizzando, annullando, facendo sfumare nel nulla questa maniera di vivere palesemente volgare e priva di ambizioni? Fortunatamente per il mondo dei “pranksters”, questi succitati “artisti” dell’epoca di YouTube tendono a criticare chi fa sketch insinceri e finti, non tanto chi comunque trova piacere nel disturbare la quiete pubblica — anche perché loro stessi lo fanno. È una nuova maniera di intendere il divertimento, un divertimento che è irritante per gli altri e in quanto tale però è capace di far vivere gli istinti più viscerali e primordiali nel divertimento nostro. È di questo che parla Prank, di questa visceralità semplice, ingenua, infantile, quella che ci porta a scherzare, a sfottere, a drogarci, a vivere facendo(si?) male. Eliminando mano a mano o inquadratura per inquadratura la sensazione di film già visto, Prank si trasforma in quello che potrebbe (dovrebbe!) diventare un film di culto, di una dolcezza indie indescrivibile, in cui riprese videoclippare si alternano a brevi piani sequenza, con colori morbidi (Biron di partenza è un direttore della fotografia), momenti animati e la sensazione, spesso, di assistere a qualcosa di iconico, nella sua cinematografica caducità.
Altro pregio sostanziale di Prank si può riscontrare nella cinefilia dilagante con cui Biron descrive i propri personaggi e i ritmi delle loro vite, inserendo ad esempio varie sequenze in cui Jean-Sé descrive a Stefie scene di film celebri d’azione (con Schwarzenegger, Bruce Willis, Van Damme) e queste vengono rappresentate visivamente come statiche animazioni a basso budget in cui viene sottolineata l’intensità dell’azione – l’azione, non la parola, l’azione, quello che riempie le vite dei ragazzini nelle loro (dis)avventure provocatorie a metà tra il terrorismo soft à la Fight Club e il semplice sconforto generazionale pop koriniano. È una cinefilia diversa da quella di Quel fantastico miglior peggior anno della mia vita (2015) di Alfonso Gomez-Rejon, film adolescenziale interessante in quanto paradosso incapace di trovare un vero pubblico in quanto troppo vicino a Federico Moccia o a John Green per gli appassionati di cinema e troppo citazionista per i ragazzini (vengono nominati Herzog, Svankmajer, Straub e Huillet, Brakhage!) — è una cinefilia fatta di simboli e sbeffeggiamenti di questi simboli, che tanto è tutto uno scherzo, la vita è uno scherzo, il cinema è uno scherzo. La sequenza più memorabile del film è proprio legata a ciò: Jean-Sé e Stefie vanno a scegliere un film da noleggiare, e, incuriositi senza una vera motivazione, prendono Il cavallo di Torino (2011) di Béla Tarr, ovvero non proprio un film di culto giovanile, ma sicuramente qualcosa di rappresentativo per il cinema più underground e apocalittico. Prima della scena in cui vedono il film all’aperto, fumando marijuana e commentando la possibilità dell’apocalisse, abbiamo uno squarcio della loro vita a metà tra la contemplazione tarr-iana e il videoclip pop, con i quattro ragazzi che vanno verso la macchina al rallentatore con in sottofondo la colonna sonora di Mihaly Vig del film di Tarr. Musica, quella di Vig, che ne Il cavallo di Torino (rap)presentava una ciclicità inesorabile che alla fine mangiava il mondo, la luce, la natura, gli uomini; ma qua quella ciclicità diventa una simpatica e necessaria parodia, atta a descrivere o a metabolizzare una vita, forse una vita in un mondo-prigione che impedisce i ragazzi di divertirsi come vorrebbero (ovvero rompendo le scatole agli altri), ma pur sempre una vita che viene vissuta con noncuranza: come Stefie strafatto di funghetti al Luna Park, come Martin che si finge disabile al supermercato, come Jean-Sé che passa giorni e giorni a dipingere un pene lungo metri, come Lea che indossa una maschera da carlino e balla da sola in un parcheggio di notte.
Nicola Settis