17 Febbraio 2016 -

POSSESSION (1981)
di Andrzej Żuławski

(Leopoli, 22 novembre 1940 – Varsavia, 17 febbraio 2016)

Andrzej Żuławski è morto. Lunga vita ad Andrzej Żuławski.

Un tumore ha recentemente ucciso uno dei più noti autori del cinema polacco e non solo, un cineasta di importanza capitale che, dall’inizio degli anni ’70 al 2000, ha portato sui nostri schermi una sequela notevole di film impressionanti, dai capolavori alienanti degli anni ’70 fino all’horror Possession (1981) e a On the silver globe (film incompleto girato nel 1977 e smontato e rimontato con inserti metafilmici nel 1988) per poi andare verso altri film più o meno riusciti e più o meno personali attraverso i tre lustri successivi. Dopo una pausa di 15 anni, abbiamo ammirato a Locarno Cosmos (2015), il suo testamento e uno dei suoi massimi capolavori. L’abbiamo visto salire davanti allo schermo prima della proiezione ufficiale, l’abbiamo applaudito e ci siamo alzati, e l’abbiamo visto piangere. E ci siamo commossi, perché sapevamo che era la prima volta che vedeva un pubblico appassionato ad un festival da più di un decennio, ma non potevamo immaginare che fosse anche l’ultima.

Saputa la notizia e ricordate le lacrime spese quel torrido giorno svizzero, viene spontanea la necessità di rispolverare i film più noti del regista, quelle opere lapidarie e capitali che ormai amiamo con così tanta prepotenza da considerare necessarie per la nostra formazione cinematografica quanto per la nostra vita stessa. Ed è quindi qui che ci ritroviamo a riguardare Possession, senza dubbio il film di culto più celebre di Żuławski. Girato nella Berlino ovest del 1980, questo horror psicologico, uno dei film preferiti di Lynch, è stato concepito dall’autore come un film semi-autobiografico: indimenticabile l’intervista in cui disse «tutto è vero, anche il mostro». La trama, quasi indescrivibile per la sua grottesca complessità formale, è necessaria come traccia: Mark (Sam Neill), dopo un viaggio all’estero per lavoro, scopre che la moglie Anna (Isabelle Adjani) lo tradisce con Heinrich (Heinz Bennent). Un po’ impazzito e un po’ geloso, inizia un’indagine per capire meglio la situazione e scopre che con Heinrich non intrattiene un rapporto da un po’, ma che ha un nuovo amante, un’entità difficilmente identificabile e probabilmente disumana. Nel frattempo, Mark constata che la maestra di suo figlio è una sosia della moglie.

La “possessione” del titolo è una doppia possessione (nel contempo una possessione demoniaca e una possessione fisica e sessuale), e tutto il film è un gioco schizofrenico di alias, doppi e doppioni — sì, perché schizofrenica diventa la realtà stessa nel cinema scomposto di Żuławski. Quest’opera bipolare ed epilettica, che alterna, con movimenti di macchina veloci e pulsanti, tecniche di regia diverse per creare un senso di alienazione infernale è una delle più demoniache e violente rappresentazioni del genere umano nel cinema tutto. La disperazione di Mark, messa in scena tramite assurdi continui cambi d’umore che, nelle fasi finali dell’opera, lo trasformano in un mostro omicida, è un’esasperata e viscerale tragedia. La coppia e l’amore diventano una malattia (tesi, questa, presente anche nel precedente L’importante è amare (1975), citato peraltro in un dialogo delirante di Cosmos: «L’importante è amare», dice Fuchs, «E chi l’ha detta questa stronzata?» replica Witold), una malattia talmente ingombrante da creare un distacco freddo e angosciante tra la realtà e la finzione: nel film il dolore fisico sembra quasi non esistere, come esplicita la scena in cui Mark e Anna si tagliano la pelle col coltello vibrante della cucina dicendo che non fa male, e la possessione demoniaca è un atto nel contempo erotico e spirituale. Il regista polacco tenta un’osmosi del piano carnale con il piano divino sin dal momento in cui introduce Dio nella dialettica del film, nell’indimenticabile frase «Per me Dio è una lebbra» pronunciata dal protagonista ad Henrich (che gli risponde «Ed è attraverso la malattia che incontriamo Dio»), e Dio altri non è che l’entità demoniaca per eccellenza in questo caso. Questo incastrarsi dei due piani è forse la vera malattia, e Żuławski lo (di)mostra perfettamente per come incastra volti, corpi e fluidi nelle proprie inquadrature, quando con una luce candida che rende astratta la pelle della Adjani sia nelle scene degli scontri più violenti sia nelle sequenze invece a sfondo sessuale, quando con inquadrature che si chiudono con violenza su primissimi piani dei volti. Il film inizia in medias res usando una regia tesa e ipercinetica anche con scene che, perlomeno nelle prime fasi del film, non ritraggono veri e propri scontri, come a sottolineare questa valenza delirante, insensata, prepotentemente sanguigna della realtà. Del resto, Żuławski umanizza e poi mostrifica la situazione in un personaggio, il personaggio allegorico del mostro (che è Satana, e che è Dio) che altro non è che una specie di trasposizione lovecraftiana del tradimento sotto la forma di un corpo, un corpo viscido in divenire. È questa trovata, un mcguffin più che mai anti-hitchcockiano in maniera quasi apocalittica e visivamente ai limiti del trash (con il mostro animato da Carlo Rambaldi), la cosa più grande del film di Żuławski: la possessione è un mostro che crea mostri, che crea violenze, più o meno come quella della lezione di ballo all’interno del film, in cui Isabelle Adjani, da affascinante e sensuale (ma comunque disturbante) fantasma del sesso e dell’amore, si tramuta in una specie di egomaniaca stupratrice, vittima nichilista di sé stessa e del delirio che ha nel proprio corpo. Se diamo ragione a John Lennon, che dice che Dio è un concetto con il quale misuriamo il nostro dolore, allora Possession è l’estremizzazione visuale di questa visione di Dio, applicata al dolore della crisi di coppia. Lo stupro e il parto diventano una cosa sola, e peraltro immateriale, quindi la violenza e la genesi si uniscono (le due sorelle: il Caso e la Fede, di cui parla sempre Anna) in un atto irreale. Realtà che diventa nichilismo puro e che si risolve nelle urla di quella passante anziana che, in una scena, osservando da lontano un appartamento in fiamme, urla ridendo «Evviva il fuoco che distrugge tutto ciò che è pulito».

È difficile scrivere di un capolavoro così tanto osannato e abusato nella storia del Cinema nel 2016, soprattutto dopo un evento angosciante quanto la perdita di questo autore. Ma è sempre necessario il recupero di questi film assurdi, da ritrovare, vedere e rivedere, per scoprire e riscoprire in continuazione tutti i particolari di questa magnetica e incredibile esperienza che, con un’intensità emotiva forse impareggiabile su questo tema, descrive la gelosia e della possessività nei rapporti relazionali. Alla fine, anche noi spettatori siamo posseduti, sedotti, distratti da questo cinema malato che diventa una malattia, una lebbra, come Dio. Perché il sangue del cinema è anche il nostro sangue e anche il nostro sangue è il sangue del cinema, il sangue divino e vampiresco ma anche il sangue concreto e fisico. Se davvero gli spettatori sono tutti bambini ed è il cinema che li forma e nel contempo li distrugge, allora Żuławski è uno dei più grandi registi di sempre per come corrompe la luce, ferisce le carni e sfonda gli specchi e le pareti del cinema, rendendo davvero questa formazione, questa educazione artistica, un atto di autolesionismo massimalista e distruttivo. Con la potenza disturbante che hanno solo pochi maestri oltre a lui, Żuławski trasforma il cinema in un’esperienza basata su azione e reazione mosse da intenti freudiani, e l’osmosi tra lo spettatore e il film diventa un’osmosi tra libido e destrudo, tra eros e thanatos. Il cinema è una possessione disordinata che funge come commento schizofrenico a quell’insopportabile ordine possessivo che è la realtà. Żuławski, forse, a questo punto, ci direbbe che, giunti a questa consapevolezza (o meglio: compreso il fatto che è impossibile ricomporre e razionalizzare la realtà e, a questo punto, giunti al cinema come via di fuga menzognera che in realtà altro non fa che confermare questa triste verità che tutto annulla e distrugge), non c’è più niente da vedere.

Nicola Settis

“Possession” (1981)
124 min | Drama, Horror | France / West Germany
Regista Andrzej Zulawski
Sceneggiatori Andrzej Zulawski (original screenplay), Andrzej Zulawski (adaptation), Frederic Tuten (adaptation)
Attori principali Isabelle Adjani, Sam Neill, Margit Carstensen, Heinz Bennent
IMDb Rating 7.3

Articoli correlati

BROKEN RAGE (2024), di Takeshi Kitano di Donato D'Elia
IDDU (2024), di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza di Marco Romagna
JOUER AVEC LE FEU (2024), di Delphine e Muriel Coulin di Donato D'Elia
BESTIARI ERBARI LAPIDARI (2024), di Martina Parenti e Massimo D’Anolfi di Nicola Settis
FAUST (1926), di Friedrich Wilhelm Murnau di Nicola Settis
TWIN PEAKS (1990-?), di David Lynch e Mark Frost di Marco Petruzzo