RITRATTO DELLA GIOVANE IN FIAMME (2019), di Céline Sciamma

Mentre così si esprimeva, accompagnato dal suono della lira,
le anime esangui piangevano; Tantalo tralasciò d’afferrare
l’acqua che gli sfuggiva, la ruota d’Issìone s’arrestò stupita,
gli avvoltoi più non rosero il fegato a Tizio, deposero l’urna
le nipoti di Belo e tu, Sisifo, sedesti sul tuo macigno.
Si dice che alle Furie, commosse dal canto, per la prima volta
si bagnassero allora di lacrime le guance. Né ebbero cuore,
regina e re degli abissi, di opporre un rifiuto alla sua preghiera,
e chiamarono Euridice. Tra le ombre appena giunte si trovava,
e venne avanti con passo reso lento dalla ferita.
Orfeo del Ròdope, prendendola per mano, ricevette l’ordine
di non volgere indietro lo sguardo, finché non fosse uscito
dalle valli dell’Averno; vano, se no, sarebbe stato il dono.
In un silenzio di tomba s’inerpicano su per un sentiero
scosceso, buio, immerso in una nebbia impenetrabile.
E ormai non erano lontani dalla superficie della terra,
quando, nel timore che lei non lo seguisse, ansioso di guardarla,
l’innamorato Orfeo si volse: sùbito lei svanì nell’Averno;
cercò, sì, tendendo le braccia, d’afferrarlo ed essere afferrata,
ma null’altro strinse, ahimè, che l’aria sfuggente.
Morendo di nuovo non ebbe per Orfeo parole di rimprovero
(di cosa avrebbe dovuto lamentarsi, se non d’essere amata?);
per l’ultima volta gli disse ‘addio’, un addio che alle sue orecchie
giunse appena, e ripiombò nell’abisso dal quale saliva”.
Ovidio, Metamorfosi (X, 41-63)

Sono pennellate sullo schermo, quelle che Céline Sciamma dipinge nel suo Portrait de la jeune fille en feu. Pennellate che cercano la profondità, la luce, la frontalità, la simmetria, il colore, la forma, la fisicità, il corrispettivo pittorico di ogni singola inquadratura, fino a trovare e delineare la più pura femminilità, la scoperta di se stesse, l’autodeterminazione, l’emancipazione sessuale, la seduzione, il desiderio, l’amore, la liberazione dalle gabbie sociali nella costante tensione erotica, e a suo modo politica, di un film di dettagli, morbidezze, emozioni, e soprattutto corpi. Corpi da immaginare, da attendere, da sognare, da rappresentare, da scoprire. Corpi da guardare e da ricordare a memoria, stretti nei loro corsetti di fine Settecento come nelle prigioni familiari e sociali che non ammettono libero arbitrio fra la vita monastica e il matrimonio combinato con uno sconosciuto, oppure che non consentono a una pittrice donna di ritrarre modelli maschili né di potersi realmente definire artista. Corpi che ne sostituiscono altri in posa per essere ritratti in attesa di completare il dipinto con il giusto volto, corpi immersi nel mare e poi nudi per asciugarsi di fronte al fuoco, corpi in silhouette di fronte al tramonto, corpi a dominare e poi essere dominati dalle fiamme, corpi che finalmente si possono appartenere nel vortice proibito di amore e saffica passione. Corpi di cui studiare silenziosamente e minuziosamente i dettagli, gli occhi, la cartilagine dei lobi, le labbra carnose sotto la veletta, la morbida pelle della schiena sormontata dallo chignon, alla ricerca di un sorriso o forse di un bacio proibito, alla ricerca di un ultimo lacrimato sfiorarsi delle mani. Proprio come Orfeo tiene per mano Euridice, ma nel suo impaziente voltarsi per guardare ancora una volta la sua bellezza non potrà che perderla per sempre.
Eppure è proprio dall’atto del guardare che nasce quel desiderio che diventa liberazione e autodeterminazione, è proprio dal fissare nella mente e poi su tela lo sguardo e l’umana emozione che nasce quell’intimità tratteggiata e bruciante, ed è proprio dalla necessità di trasformare gli occhi, la bocca, i pizzi e i capelli al vento in arte che sappia avere realmente un’anima e non solo regole e punti di fuga che deflagra la fisicità delle protagoniste, la loro scoperta personale e reciproca, il loro amore ai tempi socialmente impossibile. Ma soprattutto quella loro sincera, dolorosa e umanissima dolcezza, quel calore che mai, nemmeno nei momenti più controllati e programmatici di pura costruzione intellettuale della Sciamma fra il mito, la letteratura, la musica e la pittura, smette di pulsare sotto la superficie di Portrait de la jeune fille en feu. Anzi, in un certo senso è proprio dalle gabbie del formalismo che Céline Sciamma, giunta con la sua sorprendente opera quarta non solo al concorso principale del Festival di Cannes, ma anche a quello che a cinque anni di distanza da Diamante Nero, con in mezzo le due sceneggiature per il Quando hai 17 anni di Techiné e per il Claude Barras animato di Ma vie de Courgette, parrebbe essere il definitivo salto di qualità nelle sue ambizioni e nella sua autorialità, riesce a liberare ed emancipare i corpi e le anime delle sue protagoniste, dipingendo sullo schermo nelle forme di un melò in costume armonioso e aggraziato la loro sincerità, la loro dignità, i loro sentimenti, la loro autodeterminazione sessuale così dura da conquistare nel Settecento come oggi e il loro appartenersi per sempre, anche se separate dalla vita e dalla società, nei ricordi e nella commozione, sulle tele dipinte di volti, vestiti e fiamme che rimarranno nell’atelier di Marianne come in quell’autoritratto schizzato a carboncino sulla pagina 28 delle Metamorfosi ovidiane di Héloïse.

Basterebbe forse il polifonico «fuggire non posso» cantato a cappella nella notte quasi stregata che trasformerà definitivamente l’osservazione per lavoro in vertigine sessuale e poi in amore nel guardarla attraverso le fiamme e poi in fiamme, oppure basterebbe lo sfiorarsi delle dita sulla spiaggia nel loro correre verso il primo bacio, quella sincerità, quel trasporto, quella passione emotiva. Céline Sciamma parte dal tratto a carboncino che squarcia la verginità della carta, parte dalle mani di Marianne ormai insegnante d’arte e modella riuscita già a esporre in un mondo dell’arte al tempo esclusivamente maschile, parte dai volti delle sue allieve che la osservano e poi notano quel dipinto, Portrait de la jeune fille en feu, che incornicia nella figura della bionda Héloïse che domina le fiamme e le scintille tutta la storia della sua emancipazione racchiusa in quell’unico amore, omosessuale e folgorante, che è stato il suo primo reale momento di libertà: il momento in cui esercitare per la prima volta la propria personale volontà, la decisiva occasione, politica oltre che sessuale e sentimentale, per autodeterminarsi a essere realmente se stessa nel mondo. Un amore che è un lungo flashback al quale ritornare ogni giorno, ogni minuto, ogni sospiro, a ribadire quotidianamente la sua indipendenza di donna soggetto e non più oggetto; un amore di una carnalità sussurrata e mai morbosa eppure avvinghiante e totale, in cui il sesso in sé (e in realtà anche la nudità, limitata a un profilo, a un seno mostrato solo quando è inevitabile guardare solo il sorriso negli occhi e a un triangolino di pelo che quasi alla chetichella spunta dal bordo dell’inquadratura) verrà intelligentemente ellissato e lasciato ai limiti del fuoricampo, ma mai nemmeno per un secondo smetterà il gioco di seduzione, di dettagli, di epifanie di femminilità fra chi, a furia di guardarsi, non potrà fare a meno di desiderarsi, scoprirsi, innamorarsi, e così diventare, almeno per un momento, libera e indipendente. Non è certo un caso, in tal senso, che gli uomini siano solo funzionali nel racconto pressoché esclusivamente al femminile della Sciamma, figure di passaggio necessarie giusto all’inizio per accompagnare via mare Marianne (Noémie Merlant) all’isola della Bretagna dove dovrà studiare e ritrarre in gran segreto, imparandone a memoria i tratti e i dettagli durante le passeggiate insieme sulla battigia, la promessa sposa Héloïse (Adèle Haenel), e pronti a tornare solo alla fine per portare via, finito e inscatolato, il quadro. Quel quadro da aggiungere al corredo nuziale che segna la fine, il loro inevitabile separarsi con Héloïse destinata a prendere marito a Milano e con Marianne destinata a riuscire a imporsi nel patriarcato dell’arte, ma che al contempo è quel che resterà dell’essersi conosciute e vicendevolmente desiderate, amate, possedute.

Certo, è un film dichiaratamente programmatico, Portrait de le jeune fille en feu. Un film nel quale bisogna entrare, un film da prendere o lasciare, da accettare o rifiutare, tanto che sin dalle primissime proiezioni qui a Cannes, forse inevitabilmente, ha più o meno equamente diviso gli spettatori fra gli entusiasti e i detrattori, con solo poche vie di mezzo. Perché è un film, come anticipato, profondamente formale, nel quale ogni inquadratura è la controllatissima ma mai accademica, costruzione di un dipinto romantico che riporta alla mente le scogliere di Turner, la fisicità di Delacroix e Géricault o ancora gli interni e Il bacio di Hayez. E poi perché è un film molto evidentemente pensato, in cui a tratti il suo aperto citare e rileggere (con intelligenza, ma anche con qualche reiterazione e forzatura, va detto) i riferimenti culturali potrebbe aver fatto rimpiangere a qualcuno quella freschezza naturale delle opere precedenti. Ma il formalismo, come si diceva necessario come una sorta di pentola a pressione in cui intrappolare le emozioni fino alla loro inevitabile detonazione, nulla toglie alla sensibilità di sguardo e alla delicatezza della Sciamma, né alla sua persino inattesa leggiadria nel cercare i dettagli dei corpi, le ciglia, gli angoli della bocca, lo sguardo, le ascelle, le dita, i fremiti, i sussulti, e poi quel quasi impercettibile filetto di saliva che ancora lega le labbra nel reciproco desiderio delle protagoniste. L’uso insistito di costruzioni visive pittoriche e di colori saturi e fisici come quelli delle pennellate olio su tela che indirizzano luci e ombre per dare matericità e vita ai dipinti, anzi, restituisce sullo schermo (proprio come il secondo dipinto che di Héloïse riesce a incorniciare anche la profondità dei sentimenti, realizzato dopo un primo «senz’anima») quella stessa matericità e quella stessa necessaria vita di un film che instilla il suo discorso politico nelle emozioni crepitanti del melodramma e in un raffinato erotismo pudico, in cui ogni respiro è seduzione, in cui l’emotività è sempre veicolata dalla musica diegetica (il clavicembalo, il sabba, il concerto), e in cui la chiave per autodeterminarsi è il desiderio. E poi ci sono Orfeo ed Euridice, che tornano almeno una volta di troppo al momento dell’aborto della servetta che accompagna le giornate sull’isola delle due protagoniste e perdono forse qualche punto nelle prima forzate e poi prevedibili apparizioni spettrali quando si avvicina l’addio, ma sono la perfetta chiave che universalizza nel passato fino al mito, e quindi nel presente e nel futuro, la metafora politica della storia messa in scena, e al contempo il cuore emotivo dell’appassionato e commovente dramma d’amore. Con le due protagoniste perfettamente consapevoli di doversi ben presto girare per non vedersi più, ma anche che non smetteranno mai di cercarsi nei ricordi, nei rimpianti, nei sorrisi, nei sogni, o forse nelL’estate di Vivaldi del magnifico e lacrimato finale a teatro, con Marianne che scorge non vista Héloïse e con Héloïse che ancora e per sempre si commuove pensando a Marianne. E noi con lei. Una lacrima, o forse l’ennesima delicatissima pennellata sulla tela dell’emotività.

Marco Romagna

Si comunica che il film “RITRATTO DELLA GIOVANE IN FIAMME” di Céline Sciamma, distribuito dalla Lucky Red Distribuzione, è stato designato Film della Critica dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani SNCCI.
Motivazione:
Esteticamente raffinato e politicamente rivoluzionario, Céline Sciamma firma un indispensabile atto di ridefinizione dell’universo femminile. Mentre si racconta una storia d’amore, di sguardi e di solidarietà, l’esclusione del maschile dallo schermo, relegato fuori campo ma presente nei suoi effetti sul corpo e nelle condizioni di vita delle donne, determina la cifra di un manifesto femminista discreto e potente, elegante e senza tempo.
(uscita nelle sale 19 dicembre)