POM POKO (1994), di Isao Takahata
Si può chiamare Nyctereutes procyonoides, si può chiamare cane procione, ma la definizione più stratificata è proprio quella più “bassa” e popolare, tanuki. Perché, nella millenaria cultura giapponese, il tanuki rappresenta molto più del mansueto animaletto che, quando esce dal suo lungo letargo, si aggira simpaticamente simpaticamente panciuto e affamato per i boschi e le campagne (non solo) dell’isola di Honshu con i suoi sovradimensionati testicoli. Il tanuki, nel rincorrersi delle leggende più antiche, è animale mutaforma da sempre venerato dallo shintoismo, è maestro del travestimento malizioso al punto di trasformare le foglie in banconote, ma è un buono, goffo e ingenuo al punto di precipitare da un albero per aver trasfigurato le sue zampe in rami ingannato da quello stesso contadino di cui voleva farsi beffe. Perché il tanuki è gioioso, scherzoso nel suo tessere inganni, ma in sostanza sbadato, innocente, incapace, a differenza delle volpi, altrettanto mutaforma ma ben più furbe e pragmatiche fra «selezione naturale» verso chi non si sa trasformare e mosse finanziarie da (più) pescecani in quel mondo di pescecani, di fare davvero del male. E proprio per questo, contro l’uomo e i suoi interessi economici, contro il capitalismo, contro una modernizzazione che letteralmente estirpa e appiana le radici culturali, contro l’urbanizzazione selvaggia che lo priva persino del loro habitat naturale, il tanuki non può che essere destinato alla sconfitta. Come un eroe elegiaco, che si lancia in una lotta impari e mai smette di ribellarsi e di lottare, nemmeno dopo la resa, nemmeno al momento della sostanziale estinzione, nemmeno quando a salvarlo è solo l’immaginazione, il sogno, il ricordo, ultimi barlumi di speranza rimasti contro una realtà che schiaccia e fagocita.
È chiarissima la metafora di Pom Poko, gemma fra le più rilucenti e stratificate di Isao Takahata che torna a brillare su grande schermo a Bologna nell’ambito della retrospettiva completa a lui dedicata dal 20mo Future Film Festival a meno di due mesi dalla sua scomparsa, ed è una metafora mai così apertamente politica, non solo per i chiari parallelismi con le insurrezioni e le (sanguinose) manifestazioni con le quali si è fatta largo la democrazia in Giappone, e non solo per la sostanziale lotta di classe che gli animali, come partigiani sulle montagne, instaurano per la difesa dei propri diritti e per la propria stessa sopravvivenza. I tanuki sono quel Giappone di folklore e di radicate tradizioni che non c’è e non ci sarà più mentre avanza inesorabile l’era heisei, la purissima contemporaneità ancora in corso, quella di “pace ovunque” dell’attuale imperatore Akihito, il primo ufficialmente senza prerogative divine dopo la Dichiarazione della natura umana dell’imperatore promulgata dal padre Hirohito nel ’46. Nel 1994 della realizzazione di Pom Poko (letteralmente, traducendo il titolo originale Heisei tanuki gassen Ponpoko, verrebbe qualcosa come Pom Poko, battaglie tanuki nell’era heisei, dove il “ponpoko” o “Pom Poko” nient’altro è che l’onomatopea del rumore del battere dei tanuki sulle loro pance) Akihito era in carica da soli cinque anni, e lo sguardo al contempo malinconico e combattivo di Takahata è quello di guarda con preoccupazione sin dalle primissime battute all’epoca della definitiva occidentalizzazione, del cemento, dell’industrializzazione, degli interessi economici che dimenticando ogni tipo di rispetto calpestano senza rimpianti chiunque provi a mettersi sulla loro strada.
È la cronaca poetica di un fallimento annunciato e inevitabile, il film di Takahata (che al contrario dei suoi tanuki sbancò il botteghino in Giappone, film più visto dell’anno) realizzato dallo studio Ghibli con l’ispirazione originaria e la matita infallibile di Hayao Miyazaki, ma è anche e soprattutto un’elegia della lotta e della ribellione popolare fatta d’afflato ambientalista e anticapitalista, di coesione del popolo contro un nemico comune e di piani quinquennali varati dal consiglio, che innesta nelle colline e nel verde sventrato per la costruzione di zone residenziali il perfetto paradigma delle scelleratezze della modernità, e nei tanuki che già erano apparsi a Goshu il violoncellista – resi in tre varianti grafiche: realistici quando si presentano agli umani, antropomorfi quando sono fra loro e discutono, stilizzati ai limiti del cubismo quando combattono – tutta la tradizione che rappresentano. Una tradizione che rischia di essere spazzata via, dalle ruspe spianano il terreno, dai palazzi che sorgono dove un tempo c’erano gli alberi, dal sostanziale abbandono da parte della società dello shintoismo e del buddismo e del rispetto che comportano per gli animali sacri, e non certo in ultimo dai parchi di divertimenti – capitalismo sul capitalismo – che rivendicano la straordinaria ed eroica azione dei tanuki come mossa pubblicitaria, privandoli pure della dignità e dell’impresa compiuta in una delle più belle sequenze dell’intera filmografia Ghibli.
Sta proprio nella grande strategia degli spettri, offensiva in potenza decisiva dei tanuki con tanto di martiri che si sacrificano per la giustizia ma che verrà ribaltata in una bolla di sapone, gran parte della ricerca di tradizione di Pom Poko, con le lanterne di carta, i dragoni, le bambole, i bonzi e gli arcobaleni più legati al folklore e alla mitologia del Paese. È una parata in piena regola, nella quale si attraversa la storia di un immaginario, di una cultura, di un Paese, e accanto ai simboli del Giappone sfileranno le “special guest” miyazakiane Totoro, Kiki e l’aereo di fresca realizzazione di Porco Rosso, perché ormai, ben al di là dell’autocitazione giocosa come i tanuki, anche lo Studio Ghibli era già diventato, ed è oggi ancor di più, parte integrante e fondamentale della storia culturale e immaginifica nipponica. Dopo Pom Poko il tratto voluto da Takahata (regista ma non disegnatore) si farà più essenziale, “schizzato”, rarefatto, tenue e su fondi bianchi, dando vita a quelle opere sublimi, dall’estetica unica ancor più che semplicemente “originale” nella loro colorazione digitale, che sono I miei vicini Yamada e ancor più La storia della Principessa Splendente, irripetibile addio e chiusura di un cerchio di vita e di sogno, di tenerezza quasi insostenibile e di memoria. Ma qui siamo ancora, per l’ultima volta, nel Takahata colorato a mano, quello degli anime (apparentemente) più “classici” o per lo meno più classicamente ghibliani, con un tratto grafico maniacalmente curato ma non ancora puramente “sperimentale”, vicino piuttosto alle forme tondeggianti e ai colori di Miyazaki. Ed è in questo ambito che la sequenza della grande strategia degli spettri è un capolavoro in un capolavoro, unica per immaginario e impeccabile realizzazione tecnica, dichiarata summa del “primo” Studio Ghibli, e al contempo momento grottesco e straziato, allegro eppure tragico, in cui la goffaggine dei tanuki sparisce lasciando lo spazio al loro puro eroismo, all’abilità e alla commozione. Vince il loro lottare fino all’ultimo, oltre l’ultimo, presentandosi agli uomini con tutto il loro potere. Ma gli esseri umani dell’era heisei, divertiti più che realmente spaventati dalle spettrali presenze messe in scena dai trasformisti tanuki, non capiranno l’offensiva e le sue ragioni, non crederanno più alle leggendarie maledizioni che sempre avevano mantenuto lo status quo, e continueranno come se nulla fosse a distruggere e costruire, magari lanciando abusivamente la terra degli scavi in un’altra vallata che diventerà inabitabile per altri cani procioni. L’urbanizzazione si contrappone alla natura, il liberismo economico e il capitale calpestano le ragioni e i diritti dei più deboli, e non rimane che la rivolta. Anche se impossibile, anche se contraddittoria, anche se persa in partenza. Perché fino all’ultimo sopravvissuto non sarà mai una vera sconfitta.
Nel rifuggire la contemporaneità e il liberismo, Takahata cerca insieme alla fiaba e alla mitologia dei suoi tanuki un piccolo eden, un luogo di tranquillità, non invaso, nel quale vivere in pace, litigando al massimo fra tanuki per una ghianda. Ma questo, con l’arrivo delle ruspe, viene reso impossibile, e a nulla servirà apparire e mettere in fuga i primi operai, a nulla servirà con i propri inganni portare fuori strada i camion di materiale con tanto di morte degli autisti – in guerriglia è inevitabile che ci siano vittime. Il capitalismo tornerà sempre con nuove forze, a continuare a costruire, a continuare a espropriare i cani procioni del proprio diritto alla sopravvivenza, e dall’altra parte i tanuki, anche quelli che – come in ogni società antropomorfa – frustrati dalle circostanze e dalla paura cedono alle lusinghe dell’estremismo radicale e della forza bruta organizzando vere e proprie squadracce e parlando di uccidere tutti gli umani fino a un vero e proprio tentativo (fallito) di colpo di Stato, finiranno prima o poi per rendersi conto, magari solo pensando alla bontà del cibo umano, che la propria natura è differente, è giocosa, è docile, e che nulla si può fare, se non aggrapparsi ben saldi al sogno e alla fantasia, alle illusioni del trasformismo, per poter sperare ancora di vincere una battaglia che, di fronte alla realtà, non si può che perdere. I tanuki si coalizzano contro la cementificazione, organizzano piani, controllano attraverso la televisione (che finirà, almeno sulle prime, per attirarli come una calamita, facendo loro quasi dimenticare la vita naturale a suon di paradossali panini del capitalistissimo McDonald’s mentre i giovani studiano le tecniche di trasformismo) le risposte e le reazioni umane ai loro attacchi, accolgono saggi quasi millenari da altre tribù per avere in aiuto la loro forza di spirito, e nel frattempo discutono a lungo se mostrarsi o meno fra la necessità di rivendicare i propri atti e il timore di rappresaglie umane, se provare a rinverdire le leggende o limitarsi a ingannare qualche uomo più per divertimento che per reale tattica bellica, se spaventare o uccidere, se essere violenti o farsi beffe. Organizzando, fra spirito giocoso e confronti anche duri, la rivolta.
Nel frattempo Tama, da campagna di Tokyo, diventa inevitabilmente «la collina senza volto» sventrata dalle ruspe, e poi ancora qualcosa d’altro, radicalmente modificata, urbanizzata, quartiere residenziale di case e d’asfalto, ma anche di famiglie e di bambini che giocano. Le stagioni sono passate, i tanuki si sono riprodotti, hanno aspettato, si sono uniti, hanno lottato, hanno perso, hanno capito che solo i trasformisti sopravviveranno, hanno cercato di inserirsi in quel mondo troppo più forte di loro. Ma, per quanto fisicamente trasformati in esseri umani indistinguibili dagli altri, rimangono e rimarranno sempre dei tanuki. Giocosi, simpatici, sognatori. Illusionisti. Tanto da pensare di riportare al verde, alla montagna, alle pianure, con la natura che si riprende magicamente gli spazi. Ma è, appunto, solo un’illusione, perché ormai la città ha vinto, e non si può fare altro che ingannare gli umani per convivere con loro. Ma rimarrà sempre un tombino nascosto, un buco, un’apertura verso il verde, dove poter tornare a mostrare liberamente il proprio aspetto, dove poter essere ancora una volta, o per sempre, se stessi. La più grande vittoria è esserci ancora, nonostante tutto, continuando in qualche modo a (r)esistere. E in una danza gioiosa e (im)possibile, ancora una volta, stanno le lacrime di fronte all’ennesimo miracolo in immagini di Isao Takahata, semplicemente uno dei più grandi cineasti di sempre.
Marco Romagna