«Tutti i fanciulli parlano ai loro giocattoli; i giocattoli diventano attori nel grande dramma della vita, ridotto dalla camera oscura del loro piccolo cervello. I fanciulli coi loro giochi testimoniano la propria grande facoltà d’astrazione e la loro alta potenza immaginativa», scriveva nel 1853 Charles Baudelaire ne La morale del giocattolo. Per poi riflettere su «l’eterno dramma della diligenza rappresentato con seggiole; la diligenza-seggiola, i cavalli-seggiole, i viaggiatori-seggiole; solo il postiglione è vivo! La muta resta immobile, e tuttavia egli divora con una rapidità ardente spazi fittizi. Quale semplicità di sceneggiatura! E non c’è da far arrossire della sua impotente immaginazione questo pubblico viziato che esige dai teatri una perfezione fisica e meccanica, e non concepisce che i drammi di Shakespeare possano rimaner belli con un apparato di una semplicità barbara?». È per questo che stavolta a Radu Jude bastano ventidue minuti e una scatola piena di giocattoli, per realizzare uno fra i (capo)lavori più ispirati e brillanti della sua sempre più straordinaria carriera. Un cortometraggio che pare iniziare come un gioco, come una serie di comiche decontestualizzazioni surreali di bambole e peluches, per poi svelarsi quadro dopo quadro in tutte le sue ambizioni esistenziali, storiche, cinematografiche, politiche.
Parte dall’infanzia e dall’adolescenza il collage di Plastic Semiotic, dalla gioventù e dalla maturità, dalla vecchiaia e dalla morte. Stagioni che ciclicamente, proprio come in quel ‘saggio estravagante’ di Baudelaire a cui Jude si ispira, si rinnovano nelle gioie e nelle problematiche di ogni età come senso stesso di ogni vita che scorre. Ma c’è anche la Storia d’Europa e del mondo, in Plastic Semiotic, fra le guerre e i soprusi, fra i crimini e le ingiustizie, fra i dolori e le sopravvivenze. C’è anche la storia dell’arte e del pensiero, con il simbolismo e i cliché dell’esistenza umana di Čechov e Flaubert, con una Tienanmen di Lego che si staglia nella luce di Apocalypse now, con gli opposti immaginari messi in silenzioso dialogo. E c’è di conseguenza anche la pura teoria sulle diverse forme del cinema, che nella libera (ri)combinazione e ricontestualizzazione dei giocattoli rievoca il western e la fantascienza, l’action e il melodramma, la commedia erotica e il film di guerra. Senza che nemmeno ci sia bisogno del movimento, senza che nemmeno ci sia bisogno della parola, senza che nemmeno ci sia bisogno dell’azione. Basta e avanza la pura rappresentazione, basta e avanza il continuo stimolo dell’immaginario fra intuizioni, citazioni ed esperienze in cui riconoscersi, con l’avvicendarsi e il dialogare interno di inquadrature fisse di pochi secondi in cui i piccoli e innocenti giocattoli (im)mobili, sovradimensionati fino a diventare giganti sul grande schermo, mettono in scena l’esistenza in una narrazione episodica per sole immagini in posa, come un caricatore di diapositive in medias res di ogni istante sognato, temuto, rimpianto, vissuto.
Sta già tutto in quella decisione di utilizzare i giocattoli come puri segni, come significanti a cui sono solo il contesto e l’interazione con gli altri a dare un significato sempre differente. Non è solo la funzione pedagogica dei balocchi in età infantile a interessare Radu Jude, e non è nemmeno solo l’allargarsi delle riflessioni già di Baudelaire all’arco dell’intera esistenza, in cui è proprio da quei giochi di fanciulli che nascono la sensibilità, non solo artistica, e l’immaginazione. Nel breve e straordinario lavoro del (sempre più) grande autore rumeno, principale folgorazione fra i non pochi grandi film presentati a questa 78ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, quello che già dal titolo più conta e racchiude tutte le altre riflessioni è la semiotica delle arti, il rapporto fra medium e messaggio, il coincidere e il divergere di forma e contenuto, il costante creare e al contempo distruggere, fra la parodia e l’assurdità a volte apertamente provocatoria delle contestualizzazioni, un linguaggio di immagini fisse che sappia essere leggibile, riconoscibile e universale come l’immediatezza pura e archetipica dei giocattoli protagonisti. Dal tirannosauro dei titoli di testa al robot dei titoli di coda, passando per i giochi da bambini e per le prime sbronze, per gli ormoni in circolo e per i primi amori, per il matrimonio e per le reciproche corna non necessariamente eterosessuali che lo fanno funzionare, per i figli da crescere e per l’appropinquarsi inevitabile della morte, la storia di ogni essere umano si intreccia con la Storia del mondo dalla Genesi al futuro, nel ripetersi ciclico di eventi personali e universali in cui le (tante) risate e il (progressivo) dramma sono suggeriti da un dettaglio messo a suonare come “sbagliato” nella composizione dell’immagine, da almeno un elemento alieno e smaccatamente fuori luogo che cambia il senso del quadro, da un qualcosa che spesso è necessariamente stupido, demenziale, ridicolo, e proprio per questo così stratificabile nella creazione di increspature sempre più profonde, dalle quali ramificarsi in ogni direzione dell’esistenza, della Storia e del cinema.
Da un neonato seduto su un cesso alla Trainspotting a un cazzetto di gesso che appare malandrino sulla lavagna mentre si è interrogati a scuola, da una Barbie che prende il sole nuda a bordo piscina a una bimba che verrà spinta all’improvviso giù dalle scale da un mostro a molla, dal placido orsetto di peluche che sorride soddisfatto nello splatter delle bambole antropomorfe appena fatte a pezzi all’intero campionario di passioni, posizioni e possibili perversioni sessuali in cui è possibile “sorprendere” i giocattoli come se fossero colti in intimità. Ma non è l’umanità dei giocattoli già cardine di Toy Story. All’opposto, è una trasposizione nella plastica dei giocattoli dell’animo, delle emozioni e della vita umana, una raffigurazione che nella costruzione “fotografica” e nelle intuizioni di ogni singolo setting racconta l’esistenza in istantanee di vita e di cinema, rievocati nelle loro emozioni dalle inquadrature e delle diverse colorazioni tipiche di ogni genere in una forma ‘still’ che, a seconda di contesto e declinazione, può in potenza contenere e e riassumere tutte le altre. Basta un singolo fotogramma, per suggerire e riconoscere l’amore e la paura, il selvaggio west e l’arrivo degli alieni, il dramma sociale e il bruciare (anche orgiastico) della passione, il sopraggiungere della noia e un figlio che cresce e magari si ficca nei guai. Fino alla guerra, ai rastrellamenti, alle deportazioni naziste nella notte, agli stupri delle innocenti sempre uguali in ogni conflitto. Quella Storia (non solo) di Romania su cui da sempre e con ogni possibile linguaggio il cinema di Radu Jude si interroga, fra i totalitarismi di ogni bandiera e le cicatrici che si tramandano di generazione in generazione, fra i traumi mai metabolizzati e il perpetrarsi della violenza dell’uomo sull’uomo, fra i dagherrotipi all’albumina e il palazzo di Ceaușescu. Eppure nella vita, persino nelle peggiori tragedie, non si smette mai di nascere e di crescere, di amare e di soffrire, di desiderare e di ridere. Come quella bambola ormai anziana che, dopo l’Hulk di ormoni della gioventù, ancora sogna un Peter Pan con cui volare fra le lenzuola. Forse è questo, il vero motivo per alzarsi ogni giorno dal letto. Vivere il più intensamente possibile, fino all’ultimo giorno, tutto quello che viene.
Marco Romagna