3 Novembre 2017 -

PLAN 9 FROM OUTER SPACE (1959)
di Ed Wood

Per chi viaggia in direzione ostinata e contraria
col suo marchio speciale di speciale disperazione
e tra il vomito dei respinti muove gli ultimi passi
per consegnare alla morte una goccia di splendore
di umanità, di verità
Fabrizio De André, Smisurata preghiera

Non è mai semplice approcciarsi a una leggenda. Perché Plan 9 from outer space, la più famosa eredità del “peggior regista di sempre” Edward D. Wood Jr., o più semplicemente Ed Wood, non è “solo” un film, non più. È “il peggior film di tutti i tempi”, così definito nel ’78 dai critici Randy Dreyfuss e Harry Medvev, e dallo stesso Medvev posto imperituro al primo – e quindi ultimo – posto dei suoi Golden Turkey Awards, raccolta e classifica dei più brutti film mai visti. La notorietà di Plan 9 from outer space nasce dal dileggio e dalla derisione, ma paradossalmente è proprio al dileggio e alla derisione che un film magnificamente “arrangiato” deve la sua immortalità e la doverosa, seppur tardiva, rivalutazione. È stato soprattutto Tim Burton, “figlio spirituale” di Ed Wood fra il gusto cimiteriale e la centralità dell’immaginario, a dare con l’omonimo biopic un grande contributo nella riscoperta della genialità tarpata di Ed Wood, della sua passione di una purezza quasi fanciullesca per il cinema, della sua venerazione per la star Bela Lugosi, del suo smodato coraggio nel chiedere la sospensione dell’incredulità, della sua capacità di portare avanti le sue narrazioni con budget irrisori, tempi di riprese inferiori alla settimana, dialoghi improvvisati e spesso ridicoli, attori privi di talento ed effetti speciali caserecci, fatti di modellini e di fili, di cerchioni e di fiammiferi. E di errori, di montaggio e di messa in scena, di recitazione e di quadro, di fotografia e di posizione delle teste, perché non è quello il punto, non lo è mai stato. Certo, c’è il microfono che entra in campo, ci sono le scenografie di cartapesta con le ombre degli attori spiaccicate sopra, c’è un continuo e immotivato passaggio dal giorno alla notte perché il materiale era quello e non si poteva lavorare su altro, e soprattutto c’è Bela Lugosi, star decaduta e rilanciata quando ormai dipendente dalla morfina proprio da Ed Wood, morto dopo aver girato giusto un paio di scene. Ma Plan 9 from outer space, troppo a lungo incompreso, non è mai stato (solo) la sua incuria.

Ed Wood non si è mai posto il problema di essere dozzinale, non si è mai fatto problemi a montare consecutivamente inquadrature dalla fotografia incompatibile, non si è mai posto il problema dell’attore scadente o della sceneggiatura scritta di fretta. Così come non si è mai scoraggiato di fronte ai rifiuti e agli ostracismi di Hollywood, ma ha sempre seguito la sua strada, indipendente, libera, sfacciata ai limiti della sfrontatezza. La strada di un immaginario folle, anarchico, unico e riconoscibile: quello di un autore, un autore vero. Quello che conta, in Plan 9 from outer space, è la viva passione. È la volontà di fare, quasi senza soldi, un film impossibile, che mescolasse dischi volanti e morti resuscitati, che unisse strampalate spiegazioni scientifiche e la minaccia nucleare, che facesse coincidere manovre militari sull’asse Terra-alieni e i volti tipici del cinema di Ed Wood, gli amici di una vita: il possente torace del culturista Tor Johnson, lo sguardo spiritato della star televisiva Vampira, quello ormai sofferente di Bela Lugosi. Già, Bela Lugosi. Il semidio, il sincero amico anche da aiutare, e ora la mancanza da sostituire mantenendo, un po’ per poter vendere l’“ultimo film con”, ma ancor di più come fraterno omaggio, le poche sequenze nelle quali Lugosi era ancora in vita, e utilizzandole magari anche due o tre volte. Una scelta di cuore, sottolineata dallo sconosciuto Tom Mason, chiropratico di Lugosi e della moglie di Ed Wood spacciato alla produzione come “sosia ideale” a causa della forma del cranio ma in realtà per nulla somigliante all’attore, scritturato per essere poi costretto a coprirsi il volto con un mantello. Come a creare un distacco, come a voler rimarcare una differenza, e quindi una devozione al grande Dracula. Come a voler creare una nuova poetica all’interno del kitsch, del trasandato, ricordando in ogni singola inquadratura a chi sia dedicato il film.

Ci sono diversi modi di (ri)vedere e approcciarsi a Plan 9 from outer space, specialmente nel DCP proiettato al Trieste Science + Fiction 2017 nel quale si vedono perfettamente, mai così chiari, i fili che muovono i modellini di disco volante giocattolo, nel quale gli errori fotografici esplodono sul grande schermo, nel quale si riescono a notare tutti i dettagli “sbagliati” del film. C’è appunto quello, ludico, del fare la conta degli errori, delle diverse paste delle pellicole fra il girato e le sequenze belliche trafugate in qualche archivio, oppure degli sbalzi di luce. C’è poi quello, appassionato, del perdersi nel sogno dell’autore e credere con lui all’incredibile, fra pistole a fotoni e generatori di onde elettromagnetiche, fra luci accecanti e suoni metallici “mai sentiti”, fra bizzarri saluti militari alieni e zombie ante-litteram che fuoriescono dalle tombe per uccidere tutto ciò che gli capiti a tiro. E infine c’è quello più “storico”, filologico, che cerca di contestualizzare Plan 9 from outer space nel mare di aneddoti che da sempre lo accompagnano. A partire dai soliti metodi creativi di Ed Wood nel trovare una produzione: salti mortali ogni volta diversi, quasi sul limite della truffa, per raccattare qualche minuscolo finanziamento. Nel caso di Plan 9 from outer space, dice la leggenda, a finanziare le riprese fu una Chiesa Battista, convinta da Ed Wood nonostante i ripetuti (e ingenerosi) fiaschi consecutivi con Glen or Glenda, Jail Bait, La sposa del mostro e La notte degli spettri, che con i proventi del grande successo di Plan 9 from outer space sarebbe stato possibile girare una serie di film a tema ecclesiastico, “ad alto tasso morale”, sulle vite degli apostoli. E a questo proposito, è ancora la leggenda a parlare di una piccola clausola nel contratto, ovvero la conversione dell’intera troupe alla religione Battista, regolarmente onorata con un battesimo di massa in una piscina di Beverly Hills. Oppure si potrebbe parlare, sempre a libello di aneddotica, della “doppia vita” del film, proiettato una prima volta nel ’57 con il titolo Grave robbers from outer space, fischiato e dimenticato per poi ri-uscire, con il Plan 9 che tutti conosciamo, due anni dopo come spettacolo di mezzanotte dei double screenings americani. Il film che, a parte forse qualche coppietta non certo concentrata sullo schermo, quasi nessuno vedeva, ma che ha permesso a Plan 9 from outer space, non certo peggiore rispetto a tanti altri prodotti dozzinali e indipendenti del tempo, di giungere agli stroncatori di quasi vent’anni dopo, e con loro all’eterna gloria.

A metà strada fra la fantascienza e l’horror, Plan 9 from outer space è prima di tutto il sogno di gloria cinematografica di un uomo spartito fra turbe (etero/omo/tran)sessuali mai nascoste dai tempi di Glen or Glenda, che nel ’53 puritano non si faceva alcun problema a prendere di petto il travestitismo e la necessità di trovare una propria identità. Un uomo che al cinema avrebbe, e nei fatti ha, consacrato per intero la sua vita, rifiutato dai sistemi di Hollywood perché bollato come regista “privo di talento”, ma in grado in realtà di portare sullo schermo narrazioni magari claudicanti e messe in scena magari frettolose, ma ambizioni sempre e comunque poderose. Lavorando in condizioni economiche e in tempi così ristretti nei quali nessuno, o quasi, sarebbe mai riuscito a “portare a casa” un film. Ed Wood, con la sua dichiarata serie B, con la sua capacità di accontentarsi, con la sua inventiva nel risolvere i problemi con l’idea e con l’olio di gomito per realizzarla, è stato uno dei primi e più apprezzabili artigiani del mezzo cinematografico, disposto a cucire, truccare, costruire, ideare, pur di avere un’immagine che raccontasse quello che doveva, che portasse sullo schermo il suo immaginario. Non ha nulla di “credibile”, Plan 9 from outer space, eppure si finisce per pendere dalle sue immagini, per trovare perfettamente plausibile il piano alieno per conquistare la Terra risvegliando i morti, per emozionarsi quando il Bela Lugosi senza volto penetra nella stanza da letto della moglie del pilota, e magari anche per “non accorgersi” che la cabina di pilotaggio dell’aereo è costituita da due sedie, una tenda e due cartoncini che simulano senza alcun successo una cloche. Fra braccia incrociate in segno di saluto, “avveniristici” traduttori computerizzati, zombie destinati a rimanere scheletri, minacce di bombe solari e inseguimenti notturni che non disdegnano qualche momento di sole, Plan 9 from outer space brilla ancora adesso di una vitalità unica, quella di chi ha creduto nel cinema come libera espressione, quella di chi ha preferito il dilettantismo alla serialità hollywoodiana, quella di chi è stato un autore, a costo di passare alla storia come peggior regista di sempre. Un destino ingiusto, immeritato, per chi, lontanissimo dalla perfezione, ha portato sullo schermo tutta la sincerità della sua visionaria follia. È il destino al quale spesso vanno incontro i veri ribelli, i veri resistenti, i veri rivoluzionari. I grandissimi, le stelle comete da seguire. Le leggende, appunto.

Marco Romagna

“Plan 9 from Outer Space” (1959)
79 min | Horror, Sci-Fi | USA
Regista Edward D. Wood Jr.
Sceneggiatori Edward D. Wood Jr.
Attori principali Gregory Walcott, Mona McKinnon, Duke Moore, Tom Keene
IMDb Rating 4.0

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