PIUMA (2016), di Roan Johnson
Una delle presenze più controverse e criticate del concorso della settantatreesima Mostra del cinema di Venezia è stata senza ombra di dubbio quella di Piuma, terzo film del regista pisano Roan Johnson, tanto che alla conclusione della proiezione in sala Darsena buona parte del pubblico è esplosa fischiando e gridando “vergogna!” ancora prima dell’inizio dei titoli di coda. Sebbene vi siano innumerevoli e giuste ragioni per cui indignarsi per la collocazione del film, la reazione generale è stata decisamente troppo severa e ingiusta, o per lo meno poco obiettiva, poiché in realtà il film di per sé non merita né odio né rabbia. Piuma rimanda in maniera palese all’ormai non così recente Juno: una coppia di ragazzi romani che stanno per finire le superiori, Ferro e Cate, si ritrovano per sbaglio ad aspettare una figlia e decidono di tenerla. Nella vicenda sono coinvolti pure i genitori e il nonno di Ferro, la sua fisioterapista, il padre di Cate e i compagni di classe dei due ragazzi. Ed è probabilmente il padre toscano di Ferro a regalare, seppur nella classicità del personaggio, i migliori siparietti di comicità: esasperato dalla situazione allucinante in cui si trova la sua famiglia, gli scambi di battute litigiosi fra lui e suo figlio sono fra i momenti più sinceramente divertenti di tutto il film. Peccato che questo non valga per tutti i personaggi: uno dei maggiori limiti di Piuma sono infatti proprio i due protagonisti, in particolare quello maschile, caratterizzati male e recitati anche peggio, in una fastidiosa monotonia generale.
Il film si sviluppa in maniera molto semplice fra mille imprevisti e il tentativo di superarli. Sono piccoli drammi e conflitti familiari, quelli messi in scena da Johnson, il tutto rimanendo quasi sempre in un clima di generale leggerezza – cui Piuma deve il titolo – dalla comicità tendenzialmente piacevole, anche se alla lunga inficiata dall’uso inflazionato del romanaccio. Esilarante è in particolare la sezione del film che si apre dopo il tradimento da parte di Ferro, in cui si susseguono una serie di trovate ai limiti del surreale che stupiscono piacevolmente lo spettatore. La buona scrittura non è però una costante del film: spesso Johnson cade vittima di un hipsterismo galoppante, nel tentativo di rifarsi alle atmosfere della scena indie mainstream americana (dall’ispirazione diretta Juno giù fino a Little Miss Sunshine), facendo affondare il film in momenti “lirici” che sconfinano nell’insulso. È impossibile in tal senso dimenticare i punti in cui i due protagonisti “nuotano” sopra la città, o quando si immergono in un’ecografia in bianco e nero, oppure nell’apice assoluto di imbarazzo costituito dalla “storia delle paperelle”. Da segnalare inoltre i punti più bassi raggiunti dai dialoghi fra i due ragazzi, ovvero la discussione per il nome della bambina (che passa attraverso battute di infimo livello come: “Chiamiamola Merda!”) e un piccolo sproloquio di Ferro sulle lotte generazionali che solo un tredicenne potrebbe pensare di poter inserire in un film.
Quello che però traspare alla fine della visione di Piuma, e che porta tutto sommato a spezzare una lancia in suo favore, è la sua quasi totale mancanza di pretese: Johnson si dimostra tutt’altro che ambizioso, gira in maniera piatta ma anche ingenua, e sembra interessato semplicemente a portare al pubblico una storia divertente e spensierata, a tratti riuscendoci anche. Perché il cinema, meravigliosa macchina concettuale e contenutistica, è anche intrattenimento, questo non va mai dimenticato, e del resto qui a Venezia nessuno rimpiange i pretenziosi e ripetuti passaggi in concorso dei vari Placido e Comencini, costanti festivaliere per troppi anni di pessime selezioni italiane, e quasi tutti temono Giuseppe Piccioni il cui nuovo Questi giorni passerà in concorso domani. Piuma è un film che fatica ad elevarsi dalla mediocrità, ma la sua ostentata leggerezza dovrebbe invece essere abbastanza per salvarlo da una rabbia eccessiva, che andrebbe semmai incanalata contro il Festival che ha deciso di includere in un concorso, peraltro già particolarmente sottotono, un prodotto che avrebbe invece fatto una decisamente migliore figura in altri contesti, dall’uscita diretta in sala al passaggio televisivo, soprattutto al confronto con la (squallida) media della produzione mainstream italiana. Visti poi anche i precedenti del regista, il pensiero su questo film si può riassumere semplicemente così: poteva andare molto peggio.
Tommaso Martelli