PIÙ LIBERO DI PRIMA (2017), di Adriano Sforzi

Sugli schermi del Bellaria Film Festival arriva, nel concorso Italia Doc, un documentario che si pone anche come un film di formazione, il cui protagonista rimane sempre fuori campo, dall’altra parte del mondo, in un’India distrutta da un sistema giudiziario lentissimo e disorganizzato – del quale gli italiani sanno qualcosa, nel bene e nel male, anche grazie al controverso caso dei due Marò. Adriano Sforzi con Più libero di prima, un film la cui lavorazione è durata anni, racconta la storia di Tomaso Bruno, accusato insieme all’amica Elisabetta di aver assassinato il loro compagno di vacanze Francesco durante un viaggio collettivo sul Gange con un gruppo di amici londinesi e buttato in carcere per 5 anni a essere bastonato con come uniche libertà la possibilità di fumare sigarette, leggere e scrivere missive per i genitori, gli amici, la nonna, la sorella.

Il film si apre con il Sole e una colonna sonora orientaleggiante che esplode, diventando elettronica, nel momento in cui esplode una trascinante e vitale festività videoclippara come rappresentazione della vita e della vitalità delle vacanze di Tomaso, Elisabetta & co., tra balli in discoteca, viaggi e canne. Ma poi giunge la bluastra e triste consapevolezza della tragedia, e Tomaso racconta la sua esperienza di prigionia alla famiglia da lontano: inquadrato di rado, tendenzialmente attraverso reportage (incluse “Le Iene”), fotografie o riprese in 4:3 dell’infanzia, è comunque onnipresente attraverso le proprie lettere, che narrano una storia intensa e quasi surreale, tra tribunali pieni di animali e il paradossale fatto, che ha portato Sforzi a decidere di fare il film, che fosse Tomaso a rassicurare la famiglia da lontano, e non viceversa, dimostrando una grande forza di spirito già percepibile dalla retorica e dalla poetica delle sue lettere. Racconta molto per sensazioni, olfattive e visive, messe in scena attraverso l’animazione a mano di Olga Tranchini, allieva di Gianluigi Toccafondo, con piccole scene in bianco e nero che usano allegorie più o meno riconoscibili per raccontare la condizione tragica della vita di Tomaso e la sua ricerca della libertà. Questa libertà può essere ritrovata attraverso il cinema, mezzo di scagionamento, e l’animazione serve a questo, sia a raccontare una resa grottesca orwelliano-kafkiana del sistema giudiziario indiano sia a mostrare il ragazzo come un uccello che deve tornare a casa ad Albenga, sia per mostrare l’importanza dei libri sia per mostrare la dolcezza nostalgica del passato pre-arresto. Tifoso interista, con svariati amici ultras, Tomaso vive per gli amici attraverso le lettere, che poi diventano il gruppo Facebook “Tomaso libero” e poi lo slogan/maglietta/canzone “Tommy libero” che riunisce anche le tifoserie avversarie, con un amico milanista che indossa la sciarpa dell’Inter e singhiozza leggendo le lettere dall’India, leggendo le parole “giustizia” e “libertà”. È un film profondamente italiano, Più libero di prima, nel senso che mostra una comunità paesana tipicamente nostrana, ma non la mostra con un’aspra critica sociale o cercando di dare uno spaccato giornalistico sul mondo, cosa che sin troppi autori stanno facendo di questi tempi. Tomaso reagisce a un mondo digitale che cresce senza di lui (i commenti su Facebook che dicono che merita l’ergastolo solo perché aveva problemi di tossicodipendenza – gli stessi problemi che probabilmente hanno portato alla morte di Francesco, trovato privo di sensi e analizzato dai medici indiani per pochissimo tempo prima della cremazione), e dice «Sono quello che sono ma non sono un assassino. […] Mi sono sballato e ho allontanato le responsabilità». In un certo senso, la storia (non didattica ma intima) di Più libero di prima ha anche un carattere a suo modo universale e generazionale, riuscendo a scoprire problematiche comuni per i giovani italiani che, immergendosi nell’eccesso, dimenticano i problemi attraverso la pigrizia. Ma c’è e vive il Tomaso poeta, tranquillissimo con gli amici che lo vengono a visitare.

Qua il lungo primo piano all’amico che lo ha visitato, che piange, fa sorgere una perplessità: se questo film davvero non vuole essere né educativo né sociale, è possibile che sia solo un’operazione per commuovere e far frignare? Ci possiamo allontanare da ciò attraverso l’apprendimento dell’amicizia storica tra Sforzi e i genitori di Tomaso, veri protagonisti del film, un’amicizia storica che c’è da sempre, intensificata da quando il regista è stato allenatore di calcio per il ragazzo. Sforzi ha dunque fatto questo film per esorcizzare il dolore per la situazione, raccontando la storia dei genitori e degli amici specchiandosi in loro: in quelle lacrime, in quei tempi lenti, non c’è una semplice ricerca di intrattenimento strappalacrime, bensì c’è un’estetizzazione del dettaglio che diventa vero e proprio sguardo (fuori campo) del dolore, ed è qui che sta la sostanziale differenza tra Più libero di prima e un qualsiasi reportage documentaristico televisivo, nel fatto che il film sia lirico, spirituale, e davvero colmo di un dolore comprensibile per tutti. La formazione di Tomaso diventa la formazione della famiglia (la madre dice «Ho visto più mio figlio in questi quattro anni e mezzo che nei suoi primi 28 anni») perché nel dolore c’è un’osmosi, un’unione, una possibilità per la famiglia di capirsi davvero, dal dolore silenzioso della sorella che per motivi universitari non poteva essere con i genitori quando è giunta la notizia, fino ai 9 mesi spirituali passati dalla madre di Tomaso in India tra un rituale e l’altro. L’India, che poteva essere demonizzata per questa problematica sociale tanto discussa a causa della faccenda di Girone e Latorre, viene invece appunto ritratta attraverso l’esperienza religiosa della madre ma anche attraverso Tomaso stesso, che dice platealmente «Non odio nessuno». Dopo 1778 giorni, arriva finalmente un verdetto dopo grandi dolori e grandi attese; Tomaso, con un ultimo, unico sguardo in macchina, torna a casa.

Ci sono tuttavia due forti dubbi, uno stilistico e l’altro etico, che si manifestano più dopo la visione che durante. Quello stilistico parte dal presupposto che il film può essere visto sia come un film sulla forza sincera di Tomaso sia come un film sul dolore di chi gli era vicino prima della prigionia, e tale dubbio si manifesta nel momento in cui molte (troppe) parole scritte dal ragazzo nelle proprie lettere appaiono scritte all’interno dell’inquadratura, in bianco, in corsivo, come accentuando con retorica narrativa un qualcosa che dovrebbe già essere potente a livello logico senza bisogno di esplicitare allo spettatore quello che può comprendere da solo – come sela dimensione “letteraria” del documentario venisse trasportata, senza ragione alcuna, in Paterson (2016) di Jim Jarmusch. Il dubbio etico invece riguarda innanzitutto Elisabetta, che ha vissuto lo stesso trattamento di Tomaso ma che è sempre nominata per seconda e allontanata dallo sguardo delle telecamere nonostante la simile esperienza. Nonostante queste due cose e qualche banalità poetica sparsa qua e là (ma di queste dovremmo forse “incolpare” Tomaso, che colpa ovviamente non ne ha: le lettere sono quelle e attraverso le lettere parte la reazione a esse che è il corpo e il sangue del film), non si può non provare qualcosa nel guardare Più libero di prima: perché questa formazione universale mostra svariati lati di un’Italia che conosciamo e di un’Italia che non conosciamo, perché attraverso il cinema Tomaso ha ottenuto il riscatto e l’umanizzazione che si merita dopo tutta la vicenda, e perché alla fine se Sforzi ha avuto il cuore per mostrare il proprio dolore attraverso gli altri in maniera così intensa è perché, sia a Tomaso sia alla macchina da presa, vuole davvero tanto bene.

Nicola Settis