PIOVE (2022), di Paolo Strippoli
«Ciao, ciao, bambina, non ti voltare
Non posso dirti rimani ancor
Vorrei trovare parole nuove
Ma piove, piove sul nostro amor»Domenico Modugno, Piove (Ciao Ciao Bambina)
Si potrebbe partire dalla struttura del film, intelligentemente tripartita come le fasi della pioggia in «evaporazione», «condensazione» e «precipitazione». Si potrebbe partire dalle chiare ambizioni autoriali, che partono da un’evidente cinefilia per trovare un immaginario e una forma allegorica personale con cui dilatare il genere, con costi contenuti e brillante inventiva “baviana”, verso il dramma e l’umanità. Si potrebbe partire dal coraggio di un’opera, forse proprio per questo co-prodotta con il Belgio, intimamente romana eppure in qualche modo esterofila, orgogliosamente aliena a ogni prassi cinematografica italiana per forma e per sguardo, che non smette mai di vagare per le periferie intorno al Grande Raccordo Anulare alla ricerca delle inquietudini di una Roma sporca, violenta, di borgata, così “vera” proprio perché opposta alle rappresentazioni salottizie borghesi di troppo cinema contemporaneo. Eppure è (diventato) difficile approcciarsi a Piove, primo lungometraggio in solitaria del ventinovenne Paolo Strippoli dopo lo co-regia con Roberto De Feo di A Classic Horror Story, senza pensare per prima cosa all’assurdità del divieto ai minori di 18 anni, anziché ai ben più sensati 14, che lo ha colpito nel Paese che solo pochi mesi fa annunciava trionfalmente di aver «abolito la censura», quando in realtà la regolamentazione di autovalutazioni e (ridicoli) bollini, fermo restando come in questo caso la possibilità di intervento ministeriale, nient’altro ha fatto che inasprire le regole verso ciò che, per un motivo o per l’altro, viene preso di mira. Una mannaia insensata, che di fatto sancisce la morte produttiva di Piove prima ancora di lasciargli il tempo di sbarcare nelle sale, impedendo il passaggio di trailer, ogni forma di pubblicità e (a meno di una successiva derubricazione) le eventuali successive programmazioni televisive a un film sì potente, sì “violento”, ma che tutto sommato limita il gore a una testa spaccata, a un paio di rapidi nudi frontali in campo lungo e a qualche rivolo di sangue, mentre cerca la tensione e l’angoscia ben più che la paura, la metafora ben più che la spettacolarità, il significato allegorico ben più che il significante gotico, la messa in scena ben più che “la storia”. Anzi, a ben vedere – e non è affatto casuale in tal senso la selezione, prima del passaggio al Trieste Science+Fiction e della pur limitata uscita nelle sale, alla Festa del Cinema di Roma nella sezione per ragazzi di Alice nella Città – è forse proprio il pubblico adolescente fra i 14 e i 18 il principale (anche se non il solo) target di una rilettura del genere e del body horror che declina attraverso un’epidemia di follia e violenza che colpisce Roma, pronta a contagiare i corpi che respirano un misterioso fumo che sale dagli scarichi della città, il conflitto generazionale, l’incomunicabilità, la mancanza di un lutto troppo difficile da superare, il più doloroso male di vivere di chi pensa di aver perso tutto, e proprio per questo perde (anche? solo? di sicuro “soprattutto”) se stesso. Letteralmente risucchiato nella profondità esistenziale di un (melo)dramma familiare in abiti orrorifici, che fra la pioggia e le lacrime guarda tanto alle mutazioni fisiche di Cronenberg quanto alla capacità “bergmaniana” già di Ari Aster di trasformare in puro terrore i rapporti umani, passando sia per la stessa divisione in capitoli introdotti da un prologo (sottolineata dall’identico font che deflagra sullo schermo) del Lars von Trier di Antichrist, sia per la stessa nebbia del Fog di Carpenter che nel medesimo modo si rinnova nei secoli dei secoli, generazione dopo generazione, a reclamare sempre nuovo (o forse sempre lo stesso) sangue.
Basta una misteriosa sostanza melmosa in un tombino, basta un respiro, basta un’allucinazione, basta un picco di aggressività di cui pentirsi, o forse semplicemente di disperazione. Il resto sarà solo l’ormai inevitabile «liberarsi» del nero che sporca l’anima, della scoria di un’assenza irrisolta, di un reciproco incolparsi e ferirsi di detti e non detti, di una violenza che è l’unica possibile conseguenza di un dolore che porta a vedere il mondo e la società come un mero ammasso di individui destinati a pensare a se stessi, soffrire e comunque crepare. Sarà la morte più violenta oppure l’abbraccio appena prima dell’irreparabile, sarà il definitivo vuoto oppure l’amore in cui ritrovarsi e tenersi di nuovo per mano: il superamento di un fantasma che ancora rimane davanti agli occhi mentre il Male si sfalda e perisce. Per lo meno fino al prossimo sangue in un tombino, a risvegliarne il demone di vendetta, di desiderio, di devastazione. Si muove per simboli e leggeri disvelamenti, il sorprendente film di Paolo Strippoli. Prima con il prologo di teste tagliate nel corso dei tempi, poi con una fogna in cui far esplodere la sensualità immaginata e le frustrazioni più violente, poi con il movimento di macchina che mostra la piccola Barbara fra la sedia a rotelle e la spalliera con cui esercitarsi per ritrovare l’uso delle gambe, e infine con il controcampo che per la prima volta mostra la vistosa cicatrice sul volto del suo giovane fratello Enrico, di fronte alla cui incontenibile e provocatoria ribellione nichilista il padre Thomas, splendidamente interpretato dal feticcio dei Dardenne Fabrizio Rongione, ha ormai dovuto improvvisamente rinunciare a ogni tipo di dialogo. Proprio come saranno piccoli disvelamenti le sortite nella violenza di strada e nelle case dei vicini di casa più e meno infettati, le foto ancora incorniciate sulla scrivania, gli incontri al supermercato del padre e del figlio facendo finta di non vedersi, le poche frasi acuminate dei loro litigi e il giovane Enrico innamorato delle illusioni di una puttana mentre il disilluso Thomas non sa più «come si fa l’amore». Passando per le loro progressive allucinazioni di brusche frenate e (non) risposte alle telefonate, per la perdita (anche) del lavoro e per il rimorso più traumatico e improvviso, fino a quando il reciproco detestarsi e incolparsi per il dolore all’origine del loro sfaldarsi – che poi per tutti e due nient’altro è che vedere lo sporco della propria coscienza specchiato nell’altro – non potrà che deflagrare proprio come il palloncino che esplode nel flashback in uno spettro, in una doppia coltre oleosa, in una furia cieca senza apparente via d’uscita, o forse nella quale basta fare un passo, uno solo, per ritornare alla purezza dell’amore di una famiglia. È per questo che importa solo relativamente che qualcosa fra le metafore sfiori qua e là la grana grossa (il fantasma della moglie/madre impegnato nel medesimo dialogo con i due protagonisti, o gli evidenti riferimenti pandemici che, post-Covid, trasformano la dannazione in un vero e proprio contagio di massa), oppure che nello scorrere narrativo ci possa essere qualcosa che non torna fino in fondo (la dettagliata analessi che apre il terzo e ultimo capitolo, fondamentale come disvelamento ma forse un po’ troppo lunga nel suo spezzare il ritmo del racconto, o ancora la porta della stanza della piccola Barbara chiusa a chiave che si apre da sola nel prefinale, soluzione al contrario un po’ troppo “facile” per non ostacolare il climax). Fra iniezioni e turni al volante, fra video in chat e piscine abbandonate, Piove è un film di profonde inquietudini nelle quali ritrovare una ragione di vita, un affetto, una lacrima, un contatto fisico, un reciproco appartenersi. In un cinema artigianale e profondamente intelligente, ambizioso e al contempo umanissimo, orgogliosamente lontano dal precostituito e dal seriale e forse proprio per questo, nei vari gradi di giudizio che hanno reiterato uno fra i divieti più insensati di sempre, ritenuto colpevole, sovversivo, pericoloso. Un film “da vietare ai minori”, quando invece sarebbe bastato capirlo.
Marco Romagna