PIOGGIA DI LUGLIO (1975), di Marlen Khutsiev
L’ennesimo recupero della clamorosa filmografia del georgiano Marlen Khutsiev, dopo il suo film più noto Ho vent’anni (1965) e Infinitas (1991), consiste in Pioggia di luglio, che rispetto agli altri due è forse meno illuminante, ma non certo dimenticabile. È, come il primo dei film succitati, un film scaturito dalla de-Stalinizzazione durante il disgelo Khrushchev, quindi da uno dei periodi più pacifici per gli artisti sovietici, una sorta di oasi nella Storia, lontana dalle censure e dai blocchi. Lo spirito leninista che l’autore sprizza da ogni poro è sine dubio presente, ma qui l’operazione è diversa da quella di Ho vent’anni: nel film del 1965 infatti Khutsiev unisce il romanticismo ideologico col romanticismo del sentimento, crea proprio un’osmosi (che è anche un connubio di finzione cinematografica e realtà documentaristica), mentre in Pioggia di luglio i due contesti, pur vicini, sono separati e ad ognuno è dedicato spazio in sezioni e in termini diversi.
La trama alla base è la storia della bellissima Lena e dei suoi amici, del suo ragazzo, dell’uomo che le ha prestato un giubbotto durante un giorno di pioggia e che la chiama con una passione maniacale ma umanissima, lontana dai sospetti di perversione che verrebbero più facilmente in contesti simili in un film dei giorni nostri. Lo sguardo dell’autore su Lena non è per niente perverso e voyeuristico: ci interessiamo semplicemente alla sua routine, alla quotidianità di una studentessa sovietica divisa attraverso le varie fasi della vita giornaliera con le quali combatte senza esitazione. Se il voyeurismo entra in campo è proprio nei riferimenti al rapporto e alla comunicazione con l’uomo che le ha prestato il giubbotto, una figura tutto sommato positiva ma enigmatica. È come se l’uomo fosse un ente esterno che mette in pericolo l’individuo ma senza rappresentare qualcosa di particolarmente negativo; è possibile (in un’interpretazione davvero vaga e aperta) che sia un’allegoria proprio per il disgelo Khrushchev, che pur avendo avuto un effetto enorme sulla carriera di Khutsiev facendogli sfornare il proprio film di maggior successo, ha anche portato a censure al film stesso, accusato (giustamente) addirittura di anti-Stalinismo eccessivo. La de-Stalinizzazione dovrebbe essere qualcosa che apre una nuova porta, proprio come un nuovo amore all’orizzonte, ma ciò scalfisce comunque l’esistenza stessa di un qualcosa, che sia un film o l’integrità di una persona. Ma non è solo di una persona, è l’integrità di una donna, una donna indipendente che soffre il pedante e continuo presentarsi dell’opportunità dell’amore, ma un po’ sta al gioco e un po’ si ribella, e resiste ai continui colpi con nonchalance – proprio come Ho vent’anni che, pur con i suoi problemi di distribuzione, è riuscito a diventare un film di grande impatto per molti autori europei e internazionali. In questo senso Lena è un’eroina non solo metacinematografica ma anche politica, rappresentando un esempio davvero rivoluzionario di personaggio femminista per un film sovietico dell’epoca.
L’ultimo tassello è l’importantissimo rapporto con la realtà mostrata con i filmati d’archivio documentaristici girati da Khustiev stesso, spesso a mano, creando una realtà fatta di volti scavati dal tempo e di volti anche giovani, con lo sguardo speranzoso, puntato verso il futuro. È come se scolpisse nella memoria un’ideale, facendolo trasparire nell’umiltà combattiva dell’accettare la condizione dell’esistenza e di cercare di contrastarla. Lo sguardo dell’autore è sospeso a metà tra unatff3 ricerca espressiva vicina a quella del cinema politico russo del muto (soprattutto Vertov ma anche Ejsenstejn) e il desiderio di cogliere un’anima, una bellezza nell’idea stessa della comunità, anticipando alcune delle soluzioni visive primitive e geniali del cinema di Aristakisjan – soprattutto nelle ultime inquadrature. Insomma, Pioggia di luglio è un film politico dal cuore pulsante, sotto certi punti di vista anche un’opera metacinematografica che affronta la stessa esistenza del cinema del suo regista (e la sua utilità e la sua coerenza), un testamento d’amore drammatico, d’indipendenza avanti sul tempo, di innocenza e di violenta (implicita e fuori dall’inquadratura, dallo schermo, anche dalla trama). Tutto in conclusione si riduce in una galleria di emotività e di ideologia della comunità, con l’occhio innocente del più bello dei bambini come specchio definitivo dell’importanza della speranza nel mondo, nel futuro e nella filmografia di Khutsiev.
Nicola Settis