PIERCING (2018), di Nicolas Pesce
Il cinema, si sa, è la più magnifica fra le ossessioni. È un’ossessione bruciante, totalizzante, intima, profonda, sconvolgente. È un’ossessione forte e radicata come una mania impossibile da estirpare, come un tarlo che scava nel profondo dell’anima, come un bisogno assoluto, scintilla e crepitio di vita. È quella stessa ossessione, forse, che prova l’assassino verso il controllo della vita e della morte, è quello stesso impulso irrefrenabile, ed è quello stesso benessere che scorre durante i titoli di coda, mentre scorre il sangue dentro e fuori dalle vene e ci si sente finalmente, almeno per un po’, realizzati. Sarebbe quindi profondamente limitante e in definitiva sbagliato liquidare Piercing come un divertissement. Perché l’opera seconda del classe 1990 Nicolas Pesce, chiusura della ormai tradizionale notte horror del Torino Film Festival quest’anno dedicata ai maniaci più violenti, è molto più che un semplice divertissement. È invece un sincero e ben preciso canto d’amore, fatto di tasselli rielaborati dal miglior cinema dell’omicidio e di dinamiche che si ribaltano nelle tinte sadomaso, di un giovane appassionato nei confronti del cinema e della cinefilia, che con le sue ossessive citazioni riflette sul mezzo e sulle sue forme celebrandone in un omaggio commosso la perfezione classica ormai forse perduta nella contemporaneità dei grandi maestri, e al contempo le tendenze voyeuristiche e masochistiche proprie di ogni regista e di ogni spettatore, le cui dominanze e sottomissioni, con le immagini come vertice del sostanziale triangolo amoroso, fanno inevitabilmente da specchio a quelle di ogni coppia e forse ancor più in generale di ogni rapporto umano. Del resto, è proprio dall’ostinata cinefilia di Nicolas Pesce che nasce anche la primissima ed embrionale idea di Piercing, riadattato dal breve e omonimo romanzo scritto da quel Ryū Murakami già autore di Audition, che il regista ha apertamente dichiarato di aver scoperto proprio per il suo viscerale amore nei confronti del capolavoro di Takashi Miike. Un romanzo perverso solo come tradizione nipponica sa essere, fatto di irrefrenabile pulsione omicida e di ambiguo erotismo, di follia e di sadomasochismo, di puttane e di affilati rompighiaccio, di corde e di autoflagellamenti, di telefonate notturne e di famiglie a casa perfettamente consapevoli e complici degli istinti del marito e padre, magari proprio mentre le dinamiche si stanno ribaltando in un continuo gioco di ruolo nel quale nessuno può realmente detenere il controllo.
Già dai titoli di testa, realizzati con un font e una pasta che dichiarano apertamente la giovanile cinefilia in VHS senza la quale questo film non sarebbe mai stato concepito, il giovane regista dichiara in quale senso andrà il suo citazionismo, mentre Reed (Christopher Abbott), il protagonista sospinto dalla voce diabolica della figlioletta, già assapora il momento di uccidere. È pronto, con il suo piano studiato alla perfezione, con la sua valigia degli orrori piena di strumenti di morte, con il suo viaggio di lavoro come perfetto alibi, con la sua camera d’albergo prenotata a nome falso e nella quale sta attento a non lasciare nessuna impronta, con il suo bisogno da soddisfare che è assoluto, totale, senza il quale sarà destinato a rimanere un costante inetto, vittima della propria passività. Sente già il rumore delle lame che si conficcano nelle carni, mentre mima l’atto. Sente già l’odore del sangue, sente già le grida (rigorosamente in inglese) dell’orrore, sente i propri deliri di onnipotenza finalmente corroborati dal gesto dell’uccidere, che poi nient’altro è che il gesto del mettere in scena l’omicidio, o di volerlo vedere su uno schermo. Dice di averlo già fatto una volta nella sua vita, forse proprio accoltellando quella madre prostituta della quale oggi cerca uno specchio fra le squillo disposte al bondage, o forse no, si tratta solo di un suo sogno, di un suo istinto troppo a lungo represso, della sua ennesima fuga dalla realtà e dalla propria inadeguatezza. Ma, quando Jackie (Mia Wasikowska), prostituta (sado)masochista e autolesionista, giungerà nella stanza in cui secondo il piano di Reed dovrebbe trovare la morte, nulla o quasi andrà come pianificato, e si aprirà una danza infernale in cui il controllo della situazione cambierà continuamente mano, sopra e sotto, carnefice e vittima, a carte sempre più scoperte. Lei e lui, due folli, due maniaci, schiava e padrone, schiavo e padrona, a scambiarsi continuamente i ruoli, a dominare per ritrovarsi poi sottomessi, fra coltelli e droghe, fra corde e sangue, fra lame affilate e telefonate alla moglie che, innervando Piercing della necessaria ironia, vaglia le possibilità sulla riuscita o meno del piano omicida del marito. Prima con Jackie da portare in ospedale perché si è accoltellata da sola una coscia, poi con la sua per lo meno apparente e folle volontà di morire, e infine non più in albergo ma nella casa di lei, fra corde e ultime (?) cene, lisergici allagamenti e ritorni (d)al passato, sogni e deliri, divani e pavimenti, specchi e segni sulla pelle, chiavi inglesi e interminabili corridoi che nemmeno esistono. In una spirale apparentemente senza fine, proprio come l’atto stesso del guardare, o come quello dell’immaginare e del mettere in scena.
Nicolas Pesce, innamorato del disturbante, dirige i suoi personaggi fra inquadrature dal basso e lame di luce che squarciano il buio, silhouette e camera car, ambiguità e perversione, punti di nero e saturazioni esasperate, citando e rielaborando gli anni Settanta, Ottanta e Novanta, (ri)mettendo in scena ciò che ama e giocando con le sue soluzioni e con le sue atmosfere. C’è il voyeurismo de L’occhio che uccide, ci sono le manie, le facciate dei palazzi e le algide donne di Hitchcock, ci sono le telefonate, gli ascensori, gli split screen, le pellicce “femmefataliane” e gli specchi di Brian De Palma, c’è il rompighiaccio di Basic Instinct e ci sono le stanze, le bambine con coniglio e i tappeti mutaforma di David Lynch. Così come di certo non mancano, fra accappatoi bianchi e punte affilate, le cicatrici e le blatte/virus più tipiche di David Cronenberg, ed è innegabile la centralità dei gialli italiani degli anni Settanta, omaggiati con le musiche dei Goblin, di Bruno Nicolai e di Piero Piccioni direttamente estrapolate dai vari Profondo rosso, Tenebre e La dama rossa uccide sette volte per esplodere di nuovo sullo schermo in contesti analoghi e diversissimi. Ma il film di Nicolas Pesce non si limita a inanellare citazioni e riferimenti per strizzare l’occhio al cinefilo chiaramente chiamato al gioco del riconoscere gli istanti. Si spinge oltre, elaborando ciò che è preso dai grandi film e autori di genere del passato come un vero e proprio materiale metacinematografico con il quale ragionare sullo sguardo e sul voyeurismo, sul ruolo di chi mette in scena e su quello – spesso coincidente – dello spettatore, sull’immaginario e sul suo rapporto con gli altri immaginari, e non certo in ultimo su come il cinema sia un’arte così giovane eppure già talmente esplorata e migliorata da essere già morta nei suoi contemporanei appiattimenti, tanto da venire già omaggiata come in un revival, come in una rievocazione storica, come in un’accorata epigrafe. Tanto che, anche al suo interno, il film di Nicolas Pesce è estremamente intelligente nel ripetere gli schemi poggiando su una linea di trama che è intenzionalmente il più possibile esile, semplice e lineare, su cui poter innestare senza forzature le sovrastrutture tecniche, tematiche e stilistiche di cui necessita per omaggiare gli autori che più lo hanno influenzato. Nulla di particolarmente originale, sia ben chiaro, ma Piercing non vuole essere originale, non vuole arrivare prima degli altri, ma esattamente all’opposto vuole partire dalle riflessioni e dalle soluzioni già sperimentate e collaudate per amarle ancora una volta, riportandole in vita in un nuovo calderone dedicato anima e corpo alla settima arte il cui principale scopo è quello di lasciare un segno, di rinnovare la memoria cinefila, di rimanere sulla pelle o sotto la pelle. Come una ferita, come una cicatrice, o forse proprio come quel Piercing che d’ora in poi sarà sempre lì, innestato sulla carne, sul seno, proprio di fronte al cuore.
Marco Romagna