PICCOLO FILM DI UN ALBERO (2016), di Maurizio Marras, (+ Satellite/Quello che non ho visto)

Lo ammettiamo, a scrivere di film di amici ci stiamo iniziando a prendere gusto. Forse ancora di più quando, come nel caso di Piccolo film di un albero e come già introdotto dal titolo, il vero regista non è il nostro amico Maurizio Marras che con queste pagine collabora pure sporadicamente, ma il tronco di un albero da circa 90 chili, faticosamente trasportato e usato come lente. Presentati nella sezione Satellite di Pesaro, cuore pulsante della manifestazione volto a svolgere un lavoro di mappatura delle lingue filmiche e a dare visibilità agli autori italiani indipendenti che portano avanti un’idea originale di cinema, i cinque minuti di Piccolo film di un albero sono un esperimento tecnico che ritorna alle più primigenie origini della riproducibilità dell’immagine, ritorna agli esordi della fotografia, e non sono tanto le immagini poco più che casuali che si alternano sullo schermo il reale punto di interesse, quanto il procedimento con il quale sono state raccolte.
Durante un soggiorno nelle Marche, l’estate scorsa, Maurizio Marras ha notato in un bosco un albero con uno strano buco da parte a parte, probabilmente scavato da qualche animale nel corso di chissà quanti anni. Con qualche piccolo colpo di lima, il buco nel tronco è diventato un perfetto foro stenopeico, al quale attaccare, oscurandolo con la carta stagnola, il corpo macchina di una fotocamera senza obiettivo. È il procedimento principale della camera oscura, con la luce che passa attraverso il foro andando a formare dall’altra parte, ovvero sul sensore della macchina, una proiezione capovolta di ciò che passa davanti. Quello trovato e utilizzato da Maurizio Marras è un obiettivo naturale, è un albero che si fa occhio, magari vitreo, ma fisico, reale, come se il cinema fosse nato ancora una volta sotto gli occhi di Maurizio, spettatore ben prima che regista, o al massimo assistente al servizio dell’albero del quale il brevissimo film è sostanzialmente una soggettiva. Piccolo film di un albero è se si vuole la riscoperta di un procedimento antico, ma alle alle iniziali lastre fotosensibili e alle successive pellicole utilizzate nel corso degli anni di stenoscopia, Maurizio Marras ha sostituito una moderna fotocamera digitale, staccandosi dai Film Stenopeici di Paolo Gioli girati con un tubo su emulsione e creando, in un certo senso, un’inaspettata e inedita svolta materica e naturale del digitale.

Certo, Piccolo film di un albero è anche un lavoro che ha bisogno di una contestualizzazione: non funziona da solo e con la sola visione, ma è necessario, perché sia interessante, che venga svelato almeno sommariamente il procedimento con il quale è stato ottenuto. In questo senso, forse, un cartello introduttivo o finale non sarebbe stato nocivo, eppure la sua assenza, così come l’assenza di un qualsiasi titolo di testa o di coda, è perfettamente logica e condivisibile, perché un qualsiasi intervento umano sarebbe stato in un certo senso una profanazione, un ribaltamento di quello che è e deve essere il Piccolo film di un albero, quasi un “furto” del ruolo a quello che è il vero regista, l’occhio con cui è stato girato il film. Maurizio Marras ha intelligentemente deciso di farsi da parte, di non accreditare né accreditarsi, di lasciare spazio e onori all’albero, il protagonista dell’esperimento, l’occhio che guarda, la musa e il mezzo del film, il suo senso più intimo.
E poi, per il piccolo film di Maurizio Marras, c’è una seconda contestualizzazione, quella offerta da Pesaro e da Satellite, che ha presentato Piccolo film di un albero come apertura del trittico “Quello che non ho visto”, facendolo seguire dal (non) Viaggio a Montevideo di Giovanni Cioni e dalle proiezioni attraverso lenti distorcenti di Through the looking-glass di Walter Ronzani. Un programma di film di (in)consapevoli fantasmi, di immagini sfuggenti e viste di sbieco, di distorsioni e di proiezioni, di film (ir)realizzati, come la soggettiva di un elemento naturale, come l’immagine che diventa ombra impossibile da distinguere, come l’illusione di un viaggio che non avrà mai luogo ma che troverà la propria America, o per lo meno si renderà conto della definitiva impossibilità di raggiungerla, nelle parole di Dino Campana, nei cimiteri di montagna e nelle impietose mucche al pascolo in Val D’Aosta. Visti in rapida successione, i tre film presentati in “Quello che non ho visto” vanno ben oltre il blocco per riempire uno slot festivaliero, ma dialogano apertamente fra di loro, mettendo in luce quanto il nostro rapporto con la realtà sia fatto principalmente di percezioni e come queste percezioni siano evanescenti, ambigue, figlie di un’impossibilità di guardare fino in fondo, di scrutare anche nel nostro intimo. In questo blocco, Piccolo film di un albero acquista ulteriori significati, assurge a unica possibile visione nel momento in cui l’atto stesso del vedere è diventato una chimera, un senso ingannevole, o per lo meno incerto. Forse solo quello dell’albero è uno sguardo davvero puro, naturale, privo di malizia quanto ancora assetato della curiosità di chi (ri)scopre il mondo. Uno sguardo quasi fanciullesco, paradossalmente ancora più umano rispetto agli sguardi umani. Uno sguardo silvestre, sincero, inedito, accorato: il motivo per cui esiste Satellite.

Marco Romagna