Il centro focale di Piazza Vittorio, ovviamente, è Roma, e altrettanto ovviamente qui a parlare è un non romano, che pure dalla sua New York ha deciso ormai da anni di stabilire la propria dimora all’ombra del Colosseo. A Roma, appunto, la città eterna, una città che pare sempre essere un mosaico dalle codifiche impossibili, un luogo che sfugge completamente alle impressioni e soprattutto alle comprensioni. E Piazza Vittorio, molto probabilmente, è ancora un microcosmo a sé stante, enorme, multietnica, stratificata. Questo paesone all’interno della megalopoli è abitato da anime di etnie e classi profondamente diverse, con grandi ambizioni o con l’unica ambizione misera legata al sopravvivere. Anche Abel Ferrara li passa molto tempo, e forse anche per questo ha deciso di girare un documentario che nella sua estrema semplicità risulta assai controverso. Incontra i suoi amici famosi (Garrone e Defoe su tutti), i commercianti (un macellaio egiziano, una ristoratrice cinese), gli ultimi arrivati (migranti e rifugiati, in special africani). Si sofferma, probabilmente senza la necessaria contestualizzazione e abiura riguardo ciò che viene detto, anche su realtà estremamente contraddittorie e topograficamente distanti (Casa Pound), dimenticando dall’altra parte realtà della zona che tanto hanno significato per la città intera (l’Apollo11 e i suoi tanti anni di ben precisa militanza culturale). Insomma, come spesso accade nel cinema di Ferrara, è il suo sguardo a filtrare la realtà ed a mutarla verso il proprio (com)piacimento. Con estremo fascino in varie scene, e con forse non troppa consapevolezza in altre.
Ferrara si pone come corpo (e mente) estraneo, si cala nella realtà inizialmente come ascoltatore dallo spirito (neo)realista ma dell’identità estremamente (post)moderna. Si definisce lui stesso immigrato (doppio forse, tornato in quello era il quartiere del nonno) mentre allunga altri cinque euro a un ragazzo africano per la concessione di una breve intervista. È la sua poetica, e non la poesia, a parlare. Randagio in mezzo alla miseria come accomodato nei salotti bene dei propri colleghi, Ferrara penetra la realtà romana con la sua smania sgangherata e diretta, si pone spesso in campo, con la parola come con la sua stessa presenza fisica. Il gioco senza dubbio funziona, le sensazioni che suscita sono alterate, traballanti e discontinue proprio come la sua camera continuamente in movimento; metaforicamente simbolo di un luogo, una metropoli, un continente in continuo e perenne mutamento che arricchisce le proprie radici di culture altre, ampliando lo spettro di culture che la circondano. Si procede così, tra interazioni immersive e contraddizioni surreali, lasciando il film in balia di un senso personalissimo dell’immersione in una realtà straordinariamente seducente e feconda, ma assai problematica. I dubbi rimangono però sull’approccio, da ammirare per la coerenza pressoché unica oggi, che rischia però di sviare la comprensione (non tanto quella impossibile del luogo, ma quella molto meno utopistica del film stesso).
Proprio nelle note dello stesso Ferrara, di commento al film, ci sono queste parole di Svetlana Aleksievich: “la Storia attraverso il racconto di un suo testimone e partecipante non notato da nessuno. […] È vero, non amo le grandi idee. Amo il piccolo uomo.” Sicuramente questo è il moto che anima questa visione di Piazza Vittorio. Ma quale può essere questo piccolo uomo? Nelle interazioni tra Ferrara e gli abitanti (soprattutto con i migranti), emerge il suo essere istrione e allo stesso tempo quasi eccessivo, nel porre la sua esigenza al lavoro (come il suo essere straniero) a sistema con quello di gente che nemmeno intende quale possa essere la sua professione di “regista di cinema”. Allo stesso modo la lunga intervista senza contraddittorio agli esponenti della destra romana più xenofoba rischia di trarre molto in inganno chi non conosce a sufficienza la realtà italiana, di sembrare quasi uno spot. I militanti si dichiarano difensori dei più deboli, pronti a combattere per i diritti e lottare a fianco degli ultimi, e per quanto parlino specificatamente di italiani, lasciano (furbescamente) emergere anche Marx. Sicuramente l’intenzione di Ferrara non era quella di rendere omaggio a Casa Pound, ma come possiamo essere certi che nessuno possa fraintendere, ovvero che un gruppo di neofascisti possano essere compresi invece come una realtà utile e attiva sul territorio? Il dubbio così rimane, soprattutto in questi giorni, in un si (ri)parla di un’altra possibile marcia su Roma, e non al cinema. Ma qui si torna al punto iniziale, ovvero alla comprensione di uno spaccato d’umanità a cui siamo estranei, a maggior ragione se filtrato da un autore così squisitamente eccentrico e vorticoso. Sarebbe dunque più logico cercare di guardare cosa resta sullo schermo. Un lavoro senza dubbio minore, che nemmeno cerca lo spettro della denuncia sociale, ma la sincerità di una presa diretta (non sottolineando la brutalità del reale, ma anzi esaltandone la vitalità), in cui l’unica vera protagonista è la possibilità di convivenza. Un diario romano, fatto di presenze come di assenze, consumato in una giornata ma che pone le radici in un tempo assai distante (con il repertorio del Luce). Un film fatto per la continua esigenza del girare, e del girarsi, come affermazione della propria presenza o almeno a quella del proprio sguardo. E ciò, al di là di tutto, come può essere non condivisibile?
Erik Negro