Non c’è solo la scelta di chiamare due personaggi, apparentemente secondari e che invece si riveleranno fondamentali nella parabola morale del protagonista, rispettivamente Marlo e Brando. A rendere evidente la tensione verso Apocalypse now, e necessariamente ancor prima il Cuore di Tenebra di Conrad, su cui Lav Diaz impernia l’ennesima straordinaria variazione sul tema del suo cinema unico e preziosissimo, è già l’idea alla base di questo suo nuovo e non certo per caso piovosissimo Phantosmia. Un film che si pone sin dalla caratterizzazione di un’analoga rosa “caratteriale” e “funzionale” di personaggi emblematici e delle loro traiettorie come una sorta di “versione diaziana” del capolavoro di Coppola, in cui il regista filippino riparte da simili suggestioni e dal medesimo senso per riscriverli ed innestarli in una narrazione del tutto nuova, con cui, dopo il vero e proprio regime di terrore instaurato dalla “guerra alla droga” di Duterte del dittico When the waves are gone / Essential truths of the lake, tornare nuovamente agli anni delle derive più fascistoidi sotto le leggi marziali di Ferdinand Marcos per innervare dei più tipici elementi diaziani (la malattia fisica e mentale, la corruzione del potere e della polizia, il trauma, la memoria, la perdita, la guerra, la mancanza, la peregrinazione, il duello, la scomparsa, la vis politica, la Storia, la lirica straziante dei picchi di intensità emotiva) una vicenda di stress post-traumatico e di sensi di colpa, di guerre (civili) e di ordini da eseguire, di remoti villaggi pluviali e di notti insonni nelle foreste tropicali. Ma anche di un direttore di colonia penale come un novello Kurtz ormai del tutto fuori controllo nella sua intima corruzione morale, nella sua ipocrisia e nei suoi deliri di onnipotenza che lo fanno sentire una sorta di Dio dell’isola, meta e antagonista di un (ex) soldato-killer che proprio come il Willard che fu di Martin Sheen si ritrova psicologicamente annientato dall’infinita striscia di morti sulla sua coscienza, ormai del tutto incapace di separare il bene dal male, la luce dal buio, il trauma o senso di colpa passato dalle allucinazioni (questa volta olfattive) del presente. Un po’ come se le quattro ore abbondanti di Phantosmia partissero proprio da una rilettura e ri-declinazione storica, politica e linguistica di Apocalypse now, da riadattare al consueto bianco e nero, all’immaginario e al linguaggio (oramai definitivamente e da diversi anni ricalibrato su ritmi narrativi ben più sostenuti e potenzialmente popolari rispetto a un tempo) più tipici e identitari di Lav Diaz per ragionare sulle repressioni più violente dei regimi di ieri e sul loro preoccupante specchiarsi (letteralmente, con i figli di Marcos e Duterte rispettivamente presidente e vicepresidentessa delle Filippine) dell’oggi. Una personalissima versione del medesimo uomo fisicamente tormentato dai suoi rimorsi, alla disperata ricerca di una redenzione che forse è semplicemente impossibile lungo un percorso di sofferenza e di morte in cui solo negli slanci di umanità sarà ancora possibile intravvedere qualche spiraglio di luce, ma in cui pure uno slancio di umanità può voler dire doversi ancora una volta sporcare le mani, ritrovarsi nuovamente costretti a sacrificare la serenità della propria anima per dover fare i conti con i fantasmi che si ripresenteranno in futuro, scegliere di infrangere, sì per giusta causa ma non per questo con meno dolore, il giuramento fatto a se stessi e al mondo di non tirare mai più un grilletto. Eppure anche un uomo la cui fantosmia del titolo, che ciclicamente si ripresenta a ricordargli i traumi e le colpe del passato con i suoi odori fantasma, inesistenti nella realtà eppure per lui talmente penetranti disgustosi da impedirgli perfino di mangiare, nient’altro è che una nuova declinazione della psoriasi del chiaroscuro poliziotto Hermes Papauran dei già citati lavori subito precedenti, allo stesso modo somatizzazione di un dolore, di una costante e vana ricerca priva di possibile meta, del medesimo irrisolvibile senso di mancanza, della stessa ineluttabile coincidenza fra la vita e la morte, o per meglio dire fra la salvezza e la dannazione, come unico possibile argine alla distanza incolmabile fra la giustizia e la legge di una società irrimediabilmente putrescente. L’ennesimo doloroso personaggio che si agita nell’universo dell’inconfondibile autorialità di Lavrente Indico Diaz, diventato negli anni magari un po’ meno radicale rispetto ai tempi delle sue massime dilatazioni in miniDV ma dall’altra parte giocoforza più digeribile, e che dopo avere riletto secondo il proprio stile i vari musical, thriller, fantascienza, distopia e telenovela (ma non solo), continua coerentissimo il suo percorso all’interno dei generi e della storia del cinema.
Basterebbero forse i ragazzini che giocano due contro due a basket sotto un canestro improvvisato, per ritrovare – paradossalmente rese ancora più poetiche da qualche piccolo problema di fluidità che, non si sa se per un problema tecnico di export o del DCP, a più riprese rallenta le immagini sullo schermo – le pennellate espressive più umane e strazianti di Lav Diaz. Basterebbero forse le case di bambù con il tetto di lamiera che bruciano nella notte nel flashback di quel villaggio diventato improvvisamente l’inferno, basterebbe la lirica delle sequenze oniriche con cui aprire la narrazione al simbolo di un salto a vuoto o di chi si sta scavando la fossa da solo, basterebbero le percosse agli innocenti destinate a rimanere confinate rigorosamente fuori dal campo e proprio per questo così potenti nel loro audio, basterebbe forse il dolore di un padre più e più volte respinto e rifiutato quando, sotto all’ennesimo acquazzone notturno, raccoglie e porta via ciò che rimane della chitarra che il figlio innervosito dalla sua sola presenza ha fatto a pezzi. Ma soprattutto basterebbe quel pianto ininterrotto sotto la pioggia della giovane e indifesa Reyna, provata nel fisico e nella mente dal lutto e dalla ferocia (in)umana mentre il suo ombrello giace inutilmente piantato nel terreno. Quella ragazzina muta, impaurita, orfana e quasi cieca costretta a prostituirsi con tutta la colonia penale dalla violenta madre adottiva, sostanziale rappresentazione delle sofferenze delle intere Filippine che sarà per il protagonista Hilarion Zabalan, ex-tiratore scelto prima durante la guerra civile fra cristiani e musulmani e poi ai tempi della repressione contro gli squatter che occupavano abusivamente le case integerrimo quanto spietato assassino di Stato specializzato nel tendere agguati e uccidere «le minacce alla sicurezza nazionale», l’inattesa occasione per un riscatto morale, per smettere forse di sentire quell’allucinatoria puzza di morte che dopo ogni nuovo trauma torna a pervadergli le narici (o magari per sentirla ancora, ma questa volta per giusta causa), per riuscire a canalizzare i suoi fantasmi verso l’obiettivo una volta tanto nobile di salvare ad ogni costo la vita a un’innocente vittima delle più orribili crudeltà facendola portare sana e salva verso una nuova esistenza a Dugong, e insegnandole personalmente l’importanza della lotta e dell’emancipazione, dell’imparare a parlare, a farsi rispettare e a vivere la propria vita. Un progressivo montare della tenerezza, della pietas umana e della speranza così potente da travolgere qualsiasi regola, qualsiasi promessa fatta a se stessi, qualsiasi principio di un’intera esistenza passata a eseguire ordini senza porre troppe domande, e forse pure il senso stesso di una vita da sempre talmente esposta alla violenza da non farci nemmeno più caso. Fino a prendere un cuore indurito da un’intera esistenza basata sulla spietatezza per formazione e per lavoro, passando per un temporaneo abbandono della famiglia del quale solo parte del nucleo lo avrebbe perdonato, e forse per la primissima volta (o magari per la seconda dopo decenni, in memoria di quel ribelle di quattordici anni fatto scappare anziché ucciso) riuscire a farlo finalmente germogliare in tutta la sua più vibrante umanità, in tutto il suo sacrificio morale, in tutta la speranza di una dolorosa buona azione. Il resto, ancora una volta, lo fanno come si diceva le Filippine d(e)i Marcos, mai nominati direttamente ma presenti come spettri su tutte le linee temporali di un film che parte dai massacri intestini del 1969 per balzare all’improvviso agli anni Ottanta-Novanta (o forse all’oggi) del filone principale, e poi da lì ritornare indietro in altri flashback d’orrore e nei racconti di un diario di memorie sul quale mettere in parole ogni proprio mostro inaffrontato, giorno per giorno, dal ’53 dell’arruolamento fino all’ultimo giorno di servizio da ranger. Un esercizio di reimmersione nell’esercito e nei ricordi più atroci consigliato dalla psicologa, contattata per tentare di risolvere le fantosmie appena ritornate per una terza volta, dopo lo stress post-traumatico della guerra civile e i sensi di colpa per le successive missioni omicide contro i ragazzini comunisti, al momento della morte della moglie, per imparare a ricordare e a confessare in primo luogo a se stesso ciò che sembra impossibile metabolizzare, per traslare il (proprio) punto di vista fra l’interno e l’esterno di un sistema, e proprio da quelle pagine segrete che scavano fino all’origine del (suo) male ricominciare, dopo essersi fatto assumere come guardiano della colonia penale più remota delle Filippine sull’isolotto di Pulo paesaggisticamente magnifico e proprio per questo così terribile nelle sue degenerazioni umane, il proprio percorso di pacificazione. Un doppio binario fra presente e passato, e quindi fra effetti e cause, fra dolore e memoria, fra un Marcos e l’altro, che Lav Diaz, (in)spiegabilmente mai più accolto nel concorso principale di Venezia dopo il Leone d’Oro a The woman who left ma solo nella sezione Orizzonti o come in questa edizione 2024 nel fuori competizione (per poi magari proiettarlo, dopo When the waves are gone due anni fa nella già problematica Sala Giardino, solo nella piccola e scomodissima Sala Casinò semplicemente improponibile per un film di 246 minuti e del tutto inadatta per ospitare senza imbarazzi una qualsivoglia proiezione ufficiale), fa passare attraverso la caccia all’impossibile del leggendario gatto fantasma Haring Musang, l’utopia e lo strazio di chi giura di averlo visto in punto di morte, la poesia di chi non ha mai avuto intenzione di ucciderlo ma semplicemente di confrontarsi con il fascino misterico dell’ignoto, e parallelamente attraverso le manifestazioni del popolo puntualmente represse nel sangue, le prevaricazioni di Stato, gli abissi di un direttore-dittatore che attraverso i suoi messaggi apparentemente motivazionali dagli altoparlanti del campo penitenziario nient’altro fa che tenere vivo il condizionamento, il costante instillare paura e rispetto per le autorità più autocratiche nei detenuti e nei loro (letterali) kapò, l’incessante e minacciosa ostentazione del (proprio) potere fascistoide. Elementi di un film stratificato e come di consueto semplicemente bellissimo, che magari nella magnificenza della filmografia del regista filippino, fin da Evolution of a Filipino Family e passando per i vari Century of birthing, Melancholia e From what is before autore di gran lunga fra i più importanti e rivoluzionari degli ultimi vent’anni, non verrà necessariamente enumerato fra i suoi capolavori in assoluto più miracolosi ed emotivamente toccanti, ma di fronte al quale è ancora una volta semplicemente impossibile evitare di ritrovarsi genuflessi e commossi, a celebrare un maestro che non ha mai perso nemmeno un briciolo del suo genio artistico, etico, poetico e politico. Ma soprattutto un sublime essere umano, che in ogni interstizio più oscuro e atroce della travagliata Storia delle Filippine riesce sempre a scorgere l’ultimo residuo barlume di speranza e a trasformarlo, in immagini, nella più pura e disinteressata manifestazione d’amore.
Marco Romagna