PETITE MAMAN (2021), di Céline Sciamma
C’è un qualcosa di miracoloso, in Petite Maman. Un film fatto praticamente con nulla, con una casa nel bosco come sostanziale unica location e con una coppia di gemelline straordinariamente dirette mentre un paio di attori professionisti adulti si limitano a fare loro da spalla per puntellare la narrazione, con una troupe ridotta all’osso per riprese il più possibile agili e veloci nel pieno della pandemia e con un’idea apparentemente semplice, lieve e dolcissima, eppure straordinariamente sfaccettata e profonda. È una questione di tocco, di talento, di sguardo, di immaginazione. Di sensibilità, per la quale ogni singola immagine è una carezza che scende fino ad altezza bambino per ripartire verso vette inusitate. Un qualcosa di inspiegabile eppure palpabile, riconoscibile, prezioso, commovente, che appartiene come un tratto peculiare al talento della sempre più grande Céline Sciamma, come sceneggiatrice e come regista, come creatrice di personaggi magnificamente rotondi e come delicata narratrice per immagini. Questa volta le bastano poco più di un’ora e una manciata di piccoli dettagli, un aperitivo improvvisato con patatine e succo di frutta e un abbraccio dal sedile posteriore, un’ombra ai piedi del letto che nell’oscurità della notte sembra una pantera e la «musica del futuro» da ascoltare mentre la capanna di rami nel bosco diventa una piramide che emerge dall’acqua. Le bastano un pezzo di parete mai ritinteggiata e un giardino, una frittata lanciata sulla cucina e una cravatta da farsi annodare, un letto sormontato dal triangolo ortopedico e una madre chiamata con il nome di battesimo. Le basta un bastone che ancora conserva l’odore della mano della nonna o forse no, non lo ha più, ma è bello crederlo, autosuggestionarsi e continuare a sentirlo, e così a sentirla ancora viva. Sarebbe però limitativo chiudere Petite Maman fra gli argini della mera elaborazione del lutto. Certo, c’è la casa da svuotare di una nonna che forse l’ultima volta non si è salutata a sufficienza, così come c’è una madre che, anche figlia rimasta orfana, sparisce all’improvviso vinta dal dolore. Ma il piccolo gioiello di Céline Sciamma, al ritorno fra le tematiche d’infanzia dopo la sortita erotica di Portrait de la jeune fille en feu, è molto di più. È anche un film intimo e sincero sulle generazioni, sul (ri)trovarsi, sul capirsi, e poi sul tempo, sul crescere, sulla creatività pura e giocosa dell’infanzia. Una fiaba di sentimenti e di fantasia, sorta di ideale controcampo live action più ancora di quel magnifico Ma vie de Courgette che Céline Sciamma già aveva sceneggiato per l’animazione di Claude Barras che del suo Tomboy, in cui poco importa se sia sogno o realtà, gioco o viaggio nel tempo, ieri o oggi. Quello che conta è crederci fino in fondo, fino a rendersi conto di aver già superato ogni trauma insieme, tenendosi per mano e cercandosi per un nuovo abbraccio. Una manciata di giorni con cui imparare di nuovo a sorridere.
Sta già nel titolo, la geniale intuizione narrativa, tematica e poetica di Petite Maman. Una “piccola madre” reincontrata dalla giovanissima Nelly alla propria stessa età come un’amica con cui giocare e scoprire insieme il mondo, con cui rivedere un’ultima volta la nonna ancora giovane, con cui realizzare i sogni d’infanzia l’una dell’altra. Con cui divertirsi a mettere in scena, in un improvvisato teatro casalingo senza pubblico, un dramma noir di madri e figlie strappate che in qualche modo già (ri)percorre le loro vite e i loro affetti. Un piccolo romanzo di formazione che non può prescindere dal recitare e dal recitarsi, dalla fantasia e dall’inusitata dolcezza dell’infanzia, dall’andare costantemente avanti e indietro fra il vero e il sogno – o forse davvero nel tempo, per lo meno è bello crederlo – in un crescente affetto per il quale bastano pochi giorni per (ri)conoscersi, affezionarsi e finalmente capirsi. Non serve alcun tipo di artificio né di effetto speciale, a Céline Sciamma. Per intersecare le linee parallele delle generazioni sono più che sufficienti una capanna nel bosco da costruire insieme, l’ingresso del giardino, una minima differenza nel colore delle pareti fra la casa della Marion bambina e quella contemporanea e ormai disabitata che sua figlia Nelly sta svuotando con il padre. O magari un acquazzone che ridiventa una bella giornata, mentre i vestiti si asciugano nel bagno di vent’anni prima. Da un lato, la bambina che ha perso la nonna e ancora aspetta il ritorno della madre, e dall’altro una madre che ha bisogno di tornare bambina per riscoprire l’origine della sua gioia e del suo dolore, i suoi sogni e la sua tristezza, e che solo attraverso l’amicizia con la figlia riuscirà finalmente a metabolizzare e crescere ancora, questa volta nel modo giusto. Con la semplicità solo apparente dell’infanzia e i percorsi lunghi e tortuosi della sofferenza degli adulti, la regista transalpina porta alla Berlinale 2021, forzatamente costretto fra le gabbie dell’online prima di poter finalmente trovare il grande schermo con la presentazione in Alice nella Città alla 16ma Festa del Cinema di Roma anticipo della distribuzione con Teodora Film, un cinema orgogliosamente fuori dal tempo, piccolo e delicato, dove non contano il budget e gli sforzi produttivi, ma contano lo sguardo, il tocco, la poetica, la dolcezza. Non un semplice adattarsi alla contingenza pandemica, con la necessità di girare durante il lockdown con tempi, luoghi e staff limitati, ma una scelta autoriale ben precisa e coerentissima, attraverso la quale mettere in scena l’affetto incondizionato e purissimo dei bambini, la loro fantasia, la loro innocenza, gli insegnamenti che quotidianamente sanno donare a chi è più grande. Non solo la consapevolezza di Nelly che l’intervento a cui la piccola Marion dovrà sottoporsi a giorni è già perfettamente riuscito da più di vent’anni e che quindi non c’è alcun bisogno di preoccuparsi, ma una lezione molto più umana, in cui per salutare definitivamente la nonna non è necessario che lei sappia di avere di fronte la nipote, in cui i ricordi, i sogni, gli incubi e i quaderni d’infanzia di una madre possono diventare per chi sa ascoltare la porta nel tempo di un nuovo presente, in cui i sentimenti partono da lontano e si moltiplicano all’infinito. Fino a ritrovarsi ancora nella casa vuota, chi piccola e chi grande, chi di nuovo figlia e chi di nuovo madre. Senza più bisogno di giocare a scambiarsi i ruoli, ma per sempre amiche, sorelle, con ricordi in comune e con passioni affrontate insieme, con un segreto condiviso o forse solo un sogno. Di certo entrambe figlie di un talento, quello di Céline Sciamma, tanto evidente e smisurato che per trasformare ogni istante in grande, grandissimo cinema, sembrerebbe non servirle praticamente altro.
Marco Romagna