PETIT À PETIT – Long Version (1970), di Jean Rouch
Guardare alla carriera di Jean Rouch è come attraversare continuamente spazi e continenti, frontiere e lingue, luoghi e umanità differenti. Francese solo di nascita, ha giocato continuamente nel sovvertire il potere e la sua logica solo attraverso uno sguardo fra gli sguardi delle anime d’Africa. Figura cardine e fondamentale anche per tutto ciò che successe oltralpe (Rivette lo definì come simbolo di rottura unico di quella che da lì a poco sarebbe stata la Nouvelle Vague – senza contare che proprio dalla versione in assoluto più estesa di Petit à Petit arrivò l’idea del mastodontico Out 1 -, mentre Godard da quella macchina a mano sempre più mobile e veloce prese spunto per la sua pratica rivoluzionaria del gioco al cinema), Rouch fu ingegnere ed etnologo, ma soprattutto straordinario inventore. Di un nuovo cinema etnografico e collettivo, antropologico e (anti)coloniale, capace anche di creare nuove basi possibili – produttive, artistiche e tecniche – per le filmografie rivoluzionarie dell’Africa che, anche e soprattutto dopo il decreto che sospendeva le produzioni autoctone nelle colonie francesi, aveva bisogno di sperimentare nuovi linguaggi. Non esiste né documentario né finzione, l’occhio di Rouch si fonde con l’ambiente, con chi lo attraversa, con chi lo vive, costruendo storie e relazioni tra frammenti e atti che scorrono come una piroga sul Niger. Proprio lì vivono i ragazzi di Jaguar (1954/1967) che viaggiano a piedi verso Accra per cercare lavoro, soldi e fortuna. Sempre da lì partiranno, da quella bancarella che da il nome al film, per un viaggio assai più espanso.
Petit à Petit è un film potenzialmente infinito, smontato e riscritto in più versioni (quella da otto ore prima citata, poi quella da quattro – mostrata in uno splendido e rarissimo 16mm fra le Black Light di Locarno72 – divisa in tre atti per la televisione, e poi ancora quella ancora ridotta a novantasei minuti – di cui nella retrospettiva locarnese verrà presentato giusto oggi il nuovo restauro – per l’uscita in sala) che reincontra i protagonisti di Jaguar per ritrovarli in una nuova dimensione. Il film si apre con uno splendido viaggio aereo fra notte e tramonti quasi a guardare un altro orizzonte, dal Niger a Parigi. Il protagonista ha fatto fortuna con quella bancarella ed è pronto a sbarcare in Europa per riuscire a costruire nel suo villaggio un enorme palazzo multipiano con il quale moltiplicare i beni della società. Un’esplorazione verso la modernità che è cardine anche del secondo capitolo, in cui il detour si espande e si frammenta. Emergono vorticose le bellezze del Sud Italia, la neve delle Alpi svizzere, Camogli, Genova e l’esplorazione di Colombo, per poi arrivare, passando in camera car da tutto quello che fu Ponte Morandi, fino a Hollywood e alla West Coast, dove il nostro viaggiatore viene raggiunto da un amico – mandato dalla società, oramai preoccupata – perché in preda a deliri di occidentalizzazione. Il terzo atto è un ritorno a casa, dei due indigeni accompagnati da ragazze e amici francesi, fino al villaggio. La possibilità di costruire una modernità pare creare un nuovo mondo nel primitivismo arcaico centrafricano. Ma è soltanto un’apparenza che pian piano si sgretola nella bolla, non solo finanziaria, di sogni sempre più utopistici. I continentali tornano a casa, mentre i villeggianti interrogano gli esploratori di quel mondo ricco. Tutto torna a quelle piroghe che placide segnano l’acqua del Niger, a quelle giornate scandite dal sole e dai suoi riflessi, da quella vita a noi così ancora inspiegabile nella sua splendida semplicità.
«I look at the human sciences as poetic sciences in which there is no objectivity, and I see film as not being objective, and cinema verite as a cinema of lies that depends on the art of telling yourself lies. If you’re a good storyteller then the lie is more true than reality, and if you’re a bad one, the truth is worse than a half lie». Duro, radicale e schietto, Rouch lascia il film disperdersi nelle azioni dei suoi attori, nell’improvvisazione continua, negli scarti continui davanti alle situazioni che si palesano di fronte a loro. Il rapporto con la finzione – del mezzo cinema – mostra continuamente la sua fragilità mentre i ragazzi guardano in camera e parlano con l’autore, o quando gli stessi parigini si girano verso la macchina da presa come insospettiti dal suo ticchettio. La costruzione narrativa del film nasce dunque al montaggio, ragionando e dialogando attraverso scene autonome – riscrivendo continuamente funzioni spazio-temporali – nella forma in divenire che trascende la stessa messa in scena. A tratti questa Afrique en Seine (il sottotitolo, possibile anche traslando la Senna con la scena) pare un atto etnografico al contrario, in cui sono gli africani a scrutare i parigini, ad annotare su taccuino i comportamenti occidentali, a chiedersi quale sia il reale mondo possibile (e più giusto). Questa riflessione, questo continuo ribaltamento che Rouch mette in atto, è ovviamente anche una critica feroce e sagace alle nuove forme dell’esperienza coloniale e di come il cancro del capitalismo più sfrenato potesse deformare esigenze e forme resistenti di società che da esso erano assai distanti. Un’opera straordinaria e forse non troppo compresa, ritenuta (a torto, anche dal mondo africano) anche troppo esotista nella negazione di uno sviluppo possibile e non disumano, che si rivela straordinariamente complessa nelle sue molteplici letture, non ultima quella esistenziale. In questo l’importanza, fondamentale, di una nuova cultura – e un nuovo cinema – che potesse trascendere anche dall’osservazione (e dai linguaggi) dell’Occidente; e, allo stesso modo, di un Occidente finalmente libero dalla sua sovrastrutture narrative ed estetiche prima che politiche. E Rouch questo lo sapeva benissimo, prima di tutti gli altri.
Erik Negro