Assayas, regista coltissimo, eclettico, e soprattutto cinefilo, come il suo idolo Truffaut si prova in tutti i territori del cinema, e dopo l’enigmatico, meraviglioso Sils Maria, conferma la collaborazione con Kristen Stewart, ormai attrice di grosso calibro, e la chiama per Personal Shopper, incursione nel paranormale, nel racconto di fantasmi, nell’horror/thriller purissimo, che forse più che di Hitchcock, si nutre di suggestioni depalmiane, complice la messinscena sinuosa, mobile, esploratrice di ambienti.
Messinscena, appunto, cui è stato tributato il premio a Cannes, ex aequo con un altro sguardo altrettanto potente, altrettanto fondamentale per il cinema europeo contemporaneo, che è quello di Cristian Mungiu.
Assayas fa cinema prendendo le mosse da folgorazioni che del cinema non hanno nulla, all’apparenza, ma a guardare in profondità sono accomunate alla settima arte dall’anelito condiviso di evocare ciò che non esiste, di dare rappresentazione all’irrappresentabile: i dipinti astratti di Hilma af Klint, pittrice svedese che già nel 1906, quindi prima ancora di Kandinskij, tramite forme geometriche e campiture di colore si preponeva l’obiettivo di dare corpo agli spiriti, e, insieme a lei, la figura di Victor Hugo, di cui è nota l’abitudine in un periodo della sua vita a praticare le sedute spiritiche.
Da questi indizi nasce la storia di Maureen, ragazza statunitense di 27 anni, medium che per pagarsi un soggiorno a Parigi atto a mettersi in contatto con l’aldilà e con il fratello Lewis, defunto in una sontuosa villa abbandonata a causa di un attacco cardiaco, esercita l’infausto mestiere di addetta al guardaroba di una celebrità, sostituendosi ad essa nell’indossare i suoi abiti o nel provare i suoi gioielli. Nel frattempo, è in contatto via Skype con un fidanzato lontano, che le chiede di raggiungerla in Oman dove sta lavorando, e minacciata da uno sconosciuto utente di Whatsapp che dapprima cerca con lei un contatto, di cui non conosciamo l’entità, se spiritica o, viceversa, angosciosamente fisica, e che finisce, quindi, per tormentarla. Una presa di posizione, si capisce, fortemente critica nei confronti del social network, che crea aggregati di persone che persone non sono più, ma sono entità diverse, contatti, appunto, che ci giungono sotto forma di impulsi elettrici ma che in realtà sono impalpabili. Al centro di Personal Shopper c’è il desiderio, in una sorta di doppia identità con la paura: ciò che temiamo ci affascina, e così ci affascina il gusto del proibito, la ricerca di un contatto con il fantasma, la voglia di provare gli abiti che si comprano per la propria datrice di lavoro, la necessità di farsi perseguitare dallo sconosciuto. Ed è il corpo di Kristen Stewart a catalizzare le suggestioni: un corpo attraente, desideroso, vestito, nudo, impaurito, forte, centrale. Già, il corpo, la carne, la fisicità materica sonda protesa alla mercé dell’immateriale: il timore e l’orgasmo, la scollatura audace della celebrità e lo schermo dello smartphone.
In comune con Bacalaureat di Mungiu, il film di Assayas ha il ruolo assolutamente cruciale del mezzo (medium) di comunicazione, che in questi due casi è il cellulare: strumento di controllo, presenza ingombrante, qui con degenerazioni diaboliche.
Perfettamente consapevole del potenziale che il linguaggio cinematografico gli mette a disposizione, Assayas demanda al comparto sonoro la sottolineatura dell’atmosfera di mistero del film, e si avventura addirittura nella CGI, nella memorabile sequenza d’apertura.
Alla lontana, si potrebbe osare addirittura un accostamento con Blackhat di Michael Mann, che senza evocare il paranormale o i fantasmi, si manteneva sul registro del reale-virtuale, contrapponendo l’agire digitale dell’hacker interpretato da Chris Hemsworth con il ritorno alla fisicità nell’incontro faccia a faccia con il nemico. Allo stesso tempo, gli spettri che tormentano Maureen finiscono col trasferirsi nella sua realtà sensibile, passando attraverso vestiti e gioielli e giungendo fino alla carne e al sangue. Film splendido e stratificato quanto complesso e poco compreso, fra le vette del concorso cannense.
Elio Di Pace