PERSONA (1966), di Ingmar Bergman
Persona comincia con un prologo fluttuante di immagini apparentemente sconnesse, precedendo l’illuminante manifesto del cinema odierno che è l’inizio di INLAND EMPIRE, e innanzitutto v’è l’unione tra due ferri infuocati: creano energia, creano luce. Le luci si alternano all’apertura di un’immagine, con la pellicola che scorre, e su di essa un’inquadratura capovolta da un cartone animato, che si distorce attraverso il movimento. Ancora non c’è la percezione di uno sguardo stabile, il cervello non ha corretto quello che l’immagine dovrebbe riuscire a bilanciare sul proprio asse. Con un’ennesima esplosione di luce, si passa a un bianco attraverso il quale appaiono flash di gag mute, e poi un ragno, un agnello che viene sgozzato, una crocifissione. La grandezza di Persona probabilmente sta nella ricchezza delle riflessioni interpretative che si incrociano all’interno del suo intreccio, al punto che non è un caso se il regista stesso l’ha definito il film più importante della sua carriera insieme a Sussurri e grida. E se quest’ultimo è necessario come film a colori, sanguigno com’è nelle proprie riflessioni immaginifiche sull’essere e sul soffrire, Persona è necessario come film in bianco e nero, ferita che si apre squarciando la filmografia del regista con un tocco di sperimentalismo quasi inedito in Bergman. Questo sperimentalismo si nota soprattutto da questo prologo non-narrativo, puramente evocativo, che sembra quasi enunciare una storiografia emotiva del cinema: si parte dall’occhio e dal legame tra l’occhio e la macchina, fino a creare immagini perfette che, stabilizzatesi, passano dall’umorismo fisico delle comiche dello ‘slapstick’ al surrealismo buñueliano (il ragno e il vitello) fino alla comprensione delle regole narrative, e dunque del dolore umano, che si rifà all’epica che meglio lo può aver raccontato. E chi ha sofferto più di Cristo in croce, nell’immaginario collettivo, sia quest’evento percepito come storico o letterario? Oltre le potenzialità della narrazione si trova un muro che blocca la visuale, che si apre creando una nuova dimensione naturalistica e arborea, vicino alla quale appare una grata che si distorce prospetticamente. La realtà è distorta, tutte le storie raccontabili sono state raccontate. Restano solo cadaveri. E vengono messi in scena i corpi vecchi di fantasmi, di storie non più pronunciabili perché ogni sperimentazione è già stata fatta, ogni immagine è già stata messa in scena. È qui che subentra il bambino, un intellettuale alla ricerca di un affetto che non riesce a definire. È dall’indefinizione del tatto del bambino, che prova a raggiungere un’immagine materna che si sdoppia, che dà la possibilità al cinema di nascere, e dunque al film di cominciare. Tutto si basa su una ricerca sentimentale, ed è quella ricerca a portare l’uomo a creare, sconfiggendo anche l’idea stessa di un inizio dell’immagine – l’immagine può ricominciare e fluire in continuazione, senza riferirsi al resto. Qui è Persona: nel momento in cui non si può toccare l’immagine, tanto vale comprendere quale delle due è il fulcro. E il fulcro è sine dubio il titolo, e se Jung, parlando della sua teoria della ‘persona’, utilizzava il termine latino (che vuol dire «maschera») per contrapporlo all’anima, ovvero ‘alma’ come il personaggio del film interpretato da Bibi Andersson, significa dunque che il fulcro della storia è l’altra protagonista, Liv Ullmann, Elisabeth Vogler, una donna-maschera che si ribella cercando di resistere alle ferite della realtà, tra le ombre e le luci che confondono le possibilità della sua identità. Al Bergamo Film Meeting, nessun film poteva essere migliore per celebrare al massimo l’attrice Liv Ullmann, 79 anni d’età (a dicembre 80), che fu compagna di Bergman e che è regista e sceneggiatrice affermata e matura.
Trovandoci dunque di fronte a una tragedia psico-sessuale e metacinematografica che è stata analizzata in passato sicuramente da persone con un’autorità di stampo critico di gran lunga superiore alla mia (come P. Adams Sitney e Antonio Costa), non ci si può che trovare piccoli sotto una massa di elucubrazioni cerebrali dalla variabile validità e delle più disparate potenzialità intellettuali. Ma di fronte a Persona, forse la cosa che conta di più può essere il rapporto intimo con la visione, separato dalla razionalizzazione delle informazioni che passano per le immagini. Poi, certo, il film stesso invita a farle specchiare con l’esperienza personale, accentuando con ogni immagine, attraverso la scenografia da una parte e l’uso estensivo del primo piano dall’altra, le divergenze e le convergenze psicologiche nel conflitto modernissimo tra mondo interiore e mondo esteriore. Questo conflitto diventa un conflitto dell’attore, e dall’attore (o meglio: l’attrice) diventa conflitto interno di ogni uomo: quanto può la maschera fuoriuscire dall’apparenza, da una cosa puramente esteriore che non contamina l’Io, fino a infettare l’anima? Non ha torto Slavoj Žižek quando dice che la sequenza in cui Alma si confessa a Elisabeth è la più erotica della storia del cinema. Eyes Wide Shut l’ha citata nella scena della confessione di Alice, che è visivamente impostata in maniera simile pur avendo una gerarchia di potere tra personaggi completamente sballata rispetto alla visione cruda e logorroicamente umana di Bergman, ma in un certo senso l’ultimo capolavoro di Kubrick (che non è l’unico film che riecheggia/omaggia in qualche modo Persona in senso diretto: si pensi innanzitutto a Mulholland Drive, ma anche Era il mese di maggio e, con il suo fotogramma subliminale del pene eretto verso il finale, Fight Club) non riesce a compiere, attraverso il suo drammatico momento-confessionale, una totale invasione del suo interlocutore. Bill (Tom Cruise) rimane per il resto della narrazione in un limbo tra la paura di Sé e la paura di ciò che lo circonda, mentre l’exploit di Alma nei confronti di Elisabeth corrisponde a un totale abbandono da parte della passione nei confronti del raziocinio. Attraverso ciò, la sensualità della scena non è solo fisica ma anche nello scheletro allegorico del rapporto interpersonale. Vittima e carnefice si scambiano, come del resto anche il nome “Alma” cambia corpo e volto attraverso la saga di film di Bergman ambientati sull’isola di Fårö, una pentalogia che nasce con Come in uno specchio o forse proprio una tetralogia che parte con Persona, dunque segnando l’inizio di una mappatura dell’immagine e del dolore sulfureo di un luogo tombale prima che esso sia effettivamente tombale, e che continua con L’ora del lupo, horror fuori dal tempo in cui la protagonista Alma è Liv Ullmann. Con questa scissione che si influenza perpetuamente attraverso il verbo (il racconto) e lo sfiorarsi (il rapporto tattile, che diventa tensione vampirica e saffica), si delinea in maniera tutt’altro che fiabesca lo scontro tra spiritualità e fisicità, e dunque tra corpo e anima, che fa da base al Faust di Goethe – e che esplicita, in maniera barocca e omnicomprensiva, il recente capolavoro di Sokurov a esso ispirato. Partendo da questi presupposti e da questi confronti, il film può cominciare a delinearsi nella sua complessa filosofia, che prosegue secondo i ritmi dettati da una cadenza temporale perfettamente calibrati per seguire tanto i procedimenti programmatici e meccanici dell’umana logica quanto la semplicità narrativa del voler costruire una storia basandosi su un’interazione, su un rapporto e solo e soltanto un rapporto.
Se Alma è “anima” e Elisabeth è “maschera”, è essenziale che l’anima funga come infermiera, che cura e tiene con cura il corpo traumatizzato della maschera, della resistenza psicologica al mondo esterno. E se Alma si specchia attraverso l’acqua, trovando dunque un appiglio naturalistico che accentua la propria necessità di un’identità, Elisabeth si specchia solo quando è insieme ad Alma, in un abbraccio affettuoso che potrebbe diventare amplesso onirico. O forse la sua immagine riflessa è riscontrabile anche altrove, poiché lo sguardo di Liv Ullmann cerca in un qualche modo di sondar il reale attraverso schermi e fotografie, monaci buddhisti suicidi e finestre nel passato della Seconda Guerra Mondiale, e forse queste grandi immagini di conflitti in un qualche modo sono immagine specchiata e radiografia di Elisabeth. O, meglio, di quello che Elisabeth tenderebbe a volersi porre di essere: figure doloranti e resistenti. Ma la sua resistenza e il suo dolore sono vizi e capricci infantili, non hanno la prepotenza di un atto sacrificale né di un genocidio. Il seme della violenza della Storia non ha nulla a che vedere con il seme della violenza di un essere umano; Elisabeth cerca una giustificazione del suo sentire, ma il suo Sturm und Drang interiore si esprime attraverso il mutismo, che agevola la comunicazione strettamente per immagini ma blocca la possibilità di un confronto causale, di uno scambio. Il volto diventa mappatura dell’emotività (occhi specchio dell’anima…) e dunque unico mezzo attraverso il quale ricevere messaggi e reagire a essi con altri messaggi, altre emozioni. Per questo i primi piani di Persona sono così possenti ed espressivi: perché sono l’unica maniera per poter davvero ascoltare i silenzi di Elisabeth. Ogni ombra e ogni luce posizionata da Sven Nykvist svela una nuova parte di viso, una nuova espressione, una nuova potenzialità per l’immagine. Anche il muro attraverso il quale, con un piglio antinarrativo e fantasy che stona con il resto del film (o che, meglio, ne accentua la profondità di sguardo), si apre il mondo ospedaliero che poi porta al contatto con l’immagine indefinita, anche quel muro, a suo modo, è un primo piano, che porta alla ricerca di un’espressività – e in quanto tale, Persona è, forse, con solo La passione di Giovanna d’Arco come possibile contendente, il film con i primi piani più importanti di sempre, quelli che più accentuano e sottolineano come funziona l’espressività umana attraverso l’umanità cinematografica. E sono sempre volti che cercano di creare un’osmosi, sia essa un passaggio in dissolvenza incrociata da un volto all’altro, sia esso un’unione del lato destro della faccia di una donna e del lato sinistro della faccia dell’altra (per ognuna “il lato del volto più brutto”), o uno sguardo in macchina che si conclude con una fotografia. Elisabeth scatta in direzione della cinepresa, ma lo spettatore percepisce questo scatto come uno scatto a se stesso, come un’invasione di uno spazio di privacy creato dalla distanza fisica e temporale. Ma lo sguardo di Elisabeth non è uno sguardo minaccioso, ma uno sguardo invitante, che cerca un’intesa. Bergman, cosciente della tripartizione dello sguardo cinematografico (identificata in maniera quasi saggistica, anche se forse involontaria, da A spell to ward off the darkness: lo sguardo diretto sul reale, lo sguardo mistificato sulla natura, lo sguardo descrittivo o astratto sull’interiorità), compone un’ode a queste potenzialità sfruttandole al massimo, dando coro e voce a uno sguardo che va da destra a sinistra, in avanti e indietro, sempre cercando una nuova, quarta dimensione o definizione.
Elisabeth si è chiusa nel mutismo, Alma le deve parlare. La necessità di parlare, aprendosi dà origine a un’imprevedibile non-storia di piccoli gesti sofferenti. Ci sono due domande che non ci si può che chiedere: perché Persona è un film così importante e riconosciuto nella Storia del cinema? E perché dovrebbe essere tra i punti di riferimento di ogni cinefilo? Partiamo innanzitutto rispondendo alla prima domanda; con la sua aura spettrale e la sua inquietante colonna sonora, che accentua l’alienazione portata dalla visione, Persona certo si distingue dal resto del panorama della settima arte con un certo distacco, ma a rendere le cose nette e veritiere, la ‘grandeur’ senza ‘decadence’ del film di Bergman sta nella sua capacità di non invecchiare. Certo, con un certo retrogusto storico negli anni d’uscita una visione sarebbe stata più complessa e diversa, anche per capire davvero gli anni di Woodstock e dell’LSD, della Nouvelle Vague e degli U.S.A. post-assassinio di Kennedy, però nel frattempo l’aspetto bombardante delle immagini mediatiche è diventato talmente pregnante che certe immagini di Persona sembrano profeticamente fatte appositamente per innestare idee e idealmente proseguire col bombardamento, commentandone i ritmi e le modalità nei confronti del cervello e dello sguardo umano. Quest’umore oscuro e spaventato deriva dalle reali esperienze di malattia e di depressione di Bergman, e si esprime attraverso la recitazione e la direzione degli attori talmente calcolata nel dettaglio, anche fotograficamente e scenograficamente con statue che sembrano quasi sostituire emotivamente i personaggi, da poter davvero sprigionare la forza dell’irrazionale e del subconscio. Persona, scindendo la mente in due, è un film che si percepisce come un’esperienza/sfida alle pulsioni inconsce dello spettatore, per navigare dentro le proprie necessità comunicative. Non è giusto “spiegare” il film di Bergman, ma interpretarne i dettagli secondo un flusso individuale, per le necessità di ciascuno, come in un’apertura alla soggettività. In questo senso la grandezza ‘oggettiva’ del film consiste probabilmente nel suo impatto sull’immaginario collettivo, un impatto motivato dalla grande capacità dell’autore di entrare nella personificazione con i bisogni umani per poter trovare riscontro e condivisione, anche con una certa disperazione, in sguardi a giro per il mondo. Come in un sogno fatto di illusioni e interazioni che, a loro modo, esemplificano l’essenza alla base di qualsiasi rapporto di amore e odio: così viene trovato il giusto equilibrio per spiegare in immagini desolate e desolanti e verità all’interno delle esperienze comuni tra tutti gli esseri umani.
Qua allora ci troviamo invece a dover rispondere alla seconda domanda. E se non vogliamo esporci in lungaggini interpretative, con lunghi paragoni e appunto altri exploit che non ci sentiamo intellettualmente pronti a proporre, dovremmo focalizzarci, pur probabilmente espandendo le nostre riflessioni abbastanza oltre ciò che sarebbe tradizionale, sul fatto che Persona è un lapidario momento metacinematografico, un film importante e necessario perché parla di cinema, per come parla di cinema; dopo l’esplosione di sperimentalismo del prologo, il film si assesta su dei ritmi lenti, seguendo le corrispondenze degli sguardi per definire le geometria degli spazi e degli stacchi, ma spesso violando la tradizionale composizione del mondo attraverso gli scambi oculari per spostarsi su dettagli apparentemente insignificanti. Così facendo, viene creata una vera e propria caratterizzazione dell’anima e di ciò che rende distanti anima e maschera. L’inserimento della voce narrante in una singola breve sequenza interrompe questa caratterizzazione per focalizzarsi su uno spostamento dell’asse soggettivo, usando lo sguardo di Elisabeth sulla mano di Alma per delineare Elisabeth come sguardo portante e vittima dell’intreccio ancor prima che lo diventi all’interno della narrazione. Dopo la grande confessione seguente, un momento di rottura riporta il film allo sperimentalismo, e, spingendo sempre più verso l’esterno e verso l’estremo il rapporto tra le due protagoniste anche a livello corporale, Bergman calibra sempre di più il volume in modo da dare importanza all’aspetto audio, estensione espressiva dello sconvolgimento interrelazionale che segue, tra scambi d’identità e corse per le spiagge che sembrano intuitivamente delle rivoluzioni tonali sui momenti di tensione più papabile ne L’avventura di Antonioni. Viene eliminata la sospensione dell’incredulità con un atto che supera e sconfigge le barriere del realismo, dopo il quale lo squarcio caratteriale definisce una relazione vampirica a bivio: la stessa scena viene vista sia mostrando unicamente il volto di Alma, sia mostrando unicamente il volto di Elisabeth, prima il carnefice e poi la vittima, prima un atto di violenza verso un uomo e poi la ferita che si apre, la reazione al dolore, il sangue che scorre, gli schiaffi. Ma Elisabeth scompare, se non attraverso la cinepresa, e resta solo Alma. Che questa scissione abbia avuto luogo sul palco dov’è stata messa in scena l’Elettra? Che questa tragedia dei sentimenti abbia avuto come funzione quella di cristallizzare su pellicola l’immagine di Liv Ullmann, stesa, pronta per il suo primo piano wilderiano? L’anima è così libera dalla maschera, ha imparato a guardare, l’immagine confusa ha trovato il proprio fuoco e ha eliminato l’apparenza, la resistenza al reale. È un lieto fine dotato di un’ambiguità che ha dell’onirico, con una liberazione allegorica che sembra diventare una liberazione fisica, un ‘checkpoint’ nella formazione di un individuo. Abolendo la necessità di mascherarsi, l’anima è pronta per ricontinuare a vivere, ma non per ricominciare a essere filmata. Il film si conclude qui, dando una speranza all’uomo oltre lo schermo, ma anche identificando quello che deve essere filmato, quello che il cinema deve continuare a inscenare per proseguire nel proprio flusso caratteristico: bisogna continuare a inquadrare il dolore che deriva da questa scissione, perché è quello che rende gli esseri umani psicologicamente difettosi e cinematograficamente interessanti e fallaci. Se da qui nasce tutto, semanticamente e sentimentalmente, allora perpetuare, e proseguire nella ricerca di un controcampo oltre il tutto del cinema, diventa una missione a cui si dovrebbero dedicare tutti. E Persona diventa visione d’obbligo omnicomprensiva per capire cos’è il filmabile e cosa nella mente umana dovrebbe farne parte…
Nicola Settis