PERIPHERAL (2018), di Paul Hyett

Dal sorgere fino al tramonto della kermesse, in un’annata particolarmente felice per qualità media e coerenza nella selezione, il buio in sala del Trieste Science+Fiction Festival 2018 è stato anche un’importante occasione per riflettere sulle diverse espressioni di ciò che nella nostra recensione di The Night Eats the World definivamo “cinema dell’isolamento”. Da una parte l’allegorica segregazione del diverso di Freaks, riproposizione familista del supereroismo a fumetti con la salvaguardia del pianeta a restringersi alle mura domestiche, dall’altra la gabbia dorata a doppio fondo segreto di Elizabeth Harvest, gioco del gatto col topo virato in battaglia tra i sessi dalle palesi (per quanto non sempre particolarmente sature) tinte ora depalmiane ora argentiane, dall’altra ancora la deriva solitaria di Solis, sorta di declinazione al maschile di Gravity in formato low-budget.
Si potrebbero citare tanti altri esempi, ma preferiamo dare la priorità a Peripheral, fra i casi, per quanto perfettibili, più curiosi della tendenza di quest’edizione. Il quarto lungometraggio del britannico Paul Hyett è infatti un’ulteriore vicenda di reclusione più o meno volontaria che finisce per avere diversi punti in comune con la pellicola di Dominique Rocher presentata in sala subito dopo: se nel caso degli zombie francesi abbiamo avuto a che fare con un confinamento in se stessi strettamente legato alla dimensione psichica della pura autoconservazione, prendendo in esame Peripheral il focus si sposta nei meandri e nelle contraddizioni del processo creativo e dei rapporti fra essa e il mondo esterno.
Non più un uomo comune, quindi, a condurre la storia, ma un fenomeno letterario travolto improvvisamente da un successo che evolve dapprima in culto incondizionato e poi in vera e propria psicosi collettiva, con tutto il carico di oneri, di dilemmi e di crisi che la cosa comporta; tuttavia, la Bobbi Johnson di Peripheral non è di certo un’entità sovrumana e onnisciente come il Sutter Cane de Il seme della follia, bensì una semplice scrittrice emergente, allontanatasi dalla sfera pubblica dopo che il suo debutto ha di fatto gettato Londra nell’insurrezione sociale, per molti versi simile a una versione esasperata ed esacerbata della Naomi Klein di No Logo.
Alle prese con la necessità di dare a un esordio così fortunato e destabilizzante un seguito che le garantisca tanto di preservare la verginità artistica quanto di obbedire alle regole del commercio, si ritroverà soggiogata dalla presenza a mano a mano sempre più più ingombrante di un’intelligenza artificiale, messale a disposizione dalla casa editrice, capace di rimodellare la sua creazione a seconda delle ricerche di mercato, del target principale e di tutti quegli elementi in grado di allontanare un’opera autoriale dalla sua concezione originaria. L’intento è chiaro, nobile e più che mai urgente, ossia riflettere, nell’epoca degli universi cinematografici condivisi, dei talent show canori e delle librerie impestate dalle autobiografie degli youtuber, sul destino sempre più infame riservato da un’industria e da un bacino d’utenza per cui il conformismo è diventato un merito alle voci indipendenti del settore di interesse.

La sincerità di Hyett e ancora più del suo sceneggiatore Dan Schaffer, fumettista e designer britannico la cui carriera non è mai decollata, è indubbia e i riferimenti assolutamente centrati, con citazioni che tirano esplicitamente in ballo nomi come Kurt Vonnegut – ribadito dal personaggio dell’anziano romanziere Gilmore Trent, idolo della nostra eroina, che richiama il Kilgore Trout che ha popolato per quarant’anni la produzione dell’autore di Mattatoio 5 – e Hunter S. Thompson, di cui campeggia in bella mostra un poster sulle pareti del salotto, per non parlare del guru del cyberpunk William Gibson, evocato tanto dalle tematiche che trapelano dagli stralci del romanzo in via di stesura quanto dal titolo stesso del film, che ripropone, senza l’articolo, quello dell’ultima pubblicazione dell’artefice di Neuromancer.
Pagano anche le scelte di messinscena, che ergono un ponte fra una confezione di chiara ispirazione carpenteriana, come testimoniano l’ambientazione claustrofobica, l’umorismo ghignante, le tinte cromatiche che passano dal tetro all’acido o le musiche dall’atmosfera squisitamente eighties di Si Begg, e motivi cronenberghiani, in primis un’attenzione particolare, a volte anche ardita, ai canoni del body horror fra una gravidanza elefantiaca e una pelle che, di lembo in lembo, si ritrova progressivamente impiastrata di inchiostro indelebile, una trattazione da incubo sulle zone d’ombra del progresso scientifico e una compenetrazione fra corpo umano e macchinario che sfocia nel letterale in un amplesso con il computer fra cavi attorcigliati, surriscaldamenti e sinapsi bruciate.
Peccato, quindi, che pur partendo da premesse tanto sostanziose il film sfugga progressivamente di mano e che finisca per perdere di vista il proprio bersaglio, azzardando una generica tirata tecnofobica che si risolve in una superficiale rivalsa dell’analogico sul digitale ed esagerando con una chiave allegorica che non si sa bene dove voglia andare a parare – valga per tutti la creatura partorita dalla protagonista che sembra uscita da Generazione Proteus di Cammell – o che si affida a spiegoni iperdidascalici del tutto superflui, come l’apparizione nel prefinale, letteralmente a mo’ di dea ex machina, della dottoressa Frankenstein di turno (crasi perfetta di Margaret Thatcher e Mara Maionchi) a snocciolare profezie sulla diffusione di massa della scrittura automatizzata. Il tutto a scapito di quella dialettica libertà/autorità su cui il film poggia le sue basi e dell’approfondimento di quelle dinamiche “correttive” sulla forma e sul contenuto capaci di rendere algoritmicamente accettabile il prodotto finale.
Sono difetti, tuttavia, imputabili a uno sguardo tanto francamente partecipe e coinvolto che si fatica a bocciarlo in toto. Dipendono da una fattura che, al di là delle citazioni più gratuite e facilone come l’occhio rosso che tutto vede in stile HAL9000 o l’editor sempre più stravolta dalla chirurgia plastica che pare uscita da Brazil, può dirsi sul serio orgogliosamente artigianale, soprattutto a fronte della gavetta ventennale di Hyett fra makeup e VFX, e che rilancia l’impellenza quanto mai puntuale di schierarsi contro un sistema che annichilisce la personalità e l’anticonformismo in una fase storica in cui un discorso simile, distorcendolo con somma ipocrisia dal pulpito della sua produzione Warner, si permette di farlo persino un lavoro miseramente industriale come A Star Is Born.
E a colpire nel segno, attraverso la sottotrama della fan invasata trasformatasi in stalker, è anche quella riflessione sulla responsabilità nei confronti del proprio pubblico, che ci ricorda come un’opera d’arte sia soprattutto questione di comunicazione e di impatto, e non di isolamento. Dietro le esigenze commerciali, i diktat del pensiero unico e l’umiliazione del compromesso, c’è sempre una voce, uno scritto, uno sguardo che, per quanto fioco e indebolito, cerca comunque disperatamente di emergere.
Gloria e vita alla Nuova Carta.

Andrea Bosco