Nell’anno in cui si celebrano tanto i centoventi anni dalla nascita quanto i sessanta dalla morte di Yasujirō Ozu, è interessante notare come Wim Wenders torni alla regia di un’opera “di finzione” proprio per riannodare i fili del discorso attorno al cinema del grandissimo regista giapponese. Erano in effetti ben sei anni che Wenders si teneva lontano dai lavori privi di relazione con il reale: Submergence, storia d’amore tra biomatematica, pozzi artesiani, e terrorismo islamico, approdò nel settembre 2017 senza lasciare una gran traccia di sé (si trattava per di più del primo lungometraggio finzionale del cineasta tedesco a non ricevere anteprima in uno dei tre festival principali d’Europa dal 1991, quando Fino alla fine del mondo trovò spazio direttamente in sala: altre epoche, altri stili, altre motivazioni). Proprio il film del 1991 sembra fungere da cerniera, da punto di separazione tra due momenti differenti e distanti all’interno della filmografia wendersiana, che può legittimamente essere suddivisa tra un pre e un post Bis ans Ende der Welt. Già, “fino alla fine del mondo”, l’inno/grido di una generazione che ha attraversato le onde europee a perdifiato, all’ultimo respiro, cercando nell’immagine non la vita nell’utopia ma l’utopia stessa del vivere, dell’esistere, del comunicare al mondo e col mondo. L’utopia di un’immagine che sia in grado di trattenere nella sua pudica semplicità l’assoluto, e con questa percezione rivoluzionare il modo con cui si guarda. Nel 2023 riappropriarsi di Ozu, del suo “perché”, del suo istinto alla nitidezza, non è una forma di conservatorismo: implica, com’è ovvio, una reazione al contemporaneo, ma lo fa da una prospettiva semmai tenera e in ogni caso mai nostalgica. Non si rivendica, in Perfect Days (questo il titolo della nuova fatica di Wenders, che passa qui sulla Croisette in concorso a quindici anni esatti dalla presentazione di Palermo Shooting) il ritorno al passato, a un’altra vita che tale non è più, bensì si applica all’odierno il ritmo cui l’occhio si è disabituato. Non ha mai bisogno di fumisterie, Wenders, neanche quando applica la stereoscopia a una storia intima – si veda alla voce Every Thing Will Be Fine, con ogni probabilità il suo lavoro meno compreso –, e ancor meno va a cercarle tra le pieghe della vita quotidiana di Hirayama, che lavora come addetto alle pulizie dei bagni pubblici in quel di Shibuya. Il contrasto ricercato da Wenders è dunque immediato: tra gli oltre venti quartieri speciali che compongono la mappa di Tokyo Shibuya è senza dubbio alcuno uno dei più frastornanti e dinamici. A questo mondo ultra-veloce Perfect Days reagisce con la placida routine quotidiana di Hirayama; al brulicante rutilare di esseri umani dediti alle attività di cui si compone il Capitale, Wenders contrappone un singolo individuo, finanche banale nella sua vita scandita da atti semplici, all’apparenza privi di un costrutto ulteriore.
Chiunque abbia una pur minima dimestichezza con la filmografia di Wenders non si stupirà di trovarsi a tu per tu con l’immagine in filigrana di Ozu, e del suo cinema: giusto quarant’anni fa, nel 1983, stretto tra la lavorazione di due film (Lo stato delle cose, 1982, e Paris, Texas, 1984) che gli avrebbero consegnato tra le mani un Leone e una Palma d’oro – il primo per mano di Marcel Carné, la seconda dalla giuria capitanata da Dirk Bogarde –, il regista se ne volò in Giappone, inseguendo i detriti del cinema di Ozu ancora rintracciabili in una nazione che aveva voltato pagina, “aumentando” la velocità per porsi sulla stessa linea di galleggiamento dei Paesi che dominavano il proscenio economico-finanziario internazionale. Tokyo-Ga, questo il titolo del documentario, è un viaggio d’interrogazione dell’immagine, per tentare di sbrogliare i nodi che impediscono di raggiungere la purezza, la semplicità assoluta; Ozu per Wenders è un mistero, e in un certo qual modo Perfect Days è una dichiarazione d’intenti, perfino di sconfitta. Non si può comprendere fino in fondo il mistero-Ozu, lo si può accettare nella sua totalizzante purezza ma esso resta lì, gigante muto e assertivo ad altezza tatami. Torna dunque in Giappone, Wenders, in un viaggio compiuto solo pochi anni fa dall’amico di sempre Werner Herzog – anche lui presente in Tokyo-Ga, in una delle sequenze più memorabili, e che nel 2019 a Tokyo ha diretto il suo ventesimo lungometraggio non documentario, Family Romance, LLC –, e il suo sguardo non si dimostra mai prono nei confronti del reale oggetto della sua indagine. Hirayama, cui presta voce e corporeità l’eccellente Kōji Yakusho, è poco più di una funzione scenica, lo si capisce ben presto; certo, durante la visione lo spettatore può scoprire sempre qualche dettaglio in più su di lui, fino all’ingresso in scena della figlia della sorella del protagonista, ma non sembra essere quello il reale centro del discorso. Si può legittimamente leggere Hirayama come una riedizione degli angeli che vivono nella Berlino prima della caduta del Muro ne Il cielo sopra Berlino, e non c’è dubbio che da un punto di vista strettamente spirituale l’accostamento sia ben più che sensato, ma di nuovo si sta sfiorando solo une delle verità di Perfect Days.
Nel racconto di undici giorni consecutivi nella vita ordinaria di Hirayama Wenders replica ossessivamente i medesimi atti: la sveglia con chiusura del futon su cui l’uomo dome, la pulizia dei denti e la rasatura a puntino dei baffi e della barba, la vestizione con gli abiti che utilizzerà durante le ore di lavoro, il dettaglio sulla macchinetta fotografica analogica con cui è solito scattare istantanee alla natura – e che trova collocazione nel taschino –, la raccolta dei prodotti chimici che serviranno a nettare le toilette, la breve sosta al distributore di bibite che si trova all’esterno della sua abitazione, l’accensione del furgone con annesso ascolto di un classico del rock. Ogni dettaglio quotidiano è ripetuto in modo certosino, atto che implica ovviamente il primo tentativo di ricerca della semplicità, ma che già evoca la necessità per Wenders di voltare le spalle alle virtualità del contemporaneo: tutti gli elementi con cui Hirayama ha a che fare, dagli utensili casalinghi ai prodotti con cui lavora, fino alle musicassette della sua musica preferita – sua nel senso duplice, visto che da Lou Reed agli Animals, da Van Morrison ai Kinks si tratta della stagione musicale prediletta anche dal regista – e ai libri che legge, sono materia del passato. Le giovani generazioni non ne hanno contezza. Il mondo di oggi non tocca più con mano la materia, la assorbe senza poterla esperire nel contatto; perfino l’accesso ai bagni è digitale, là dove comunque le deiezioni continuano a essere materiche. Hirayama non rifugge il contatto con il resto dell’umanità – lo testimonia il tris giocato a distanza con un misterioso frequentatore dei bagni pubblici, o i dialoghi serali nel suo locale prediletto, gestito da una donna di cui è con ogni probabilità invaghito –, ma non accetta l’illusorietà del digitale, pretendendo al contrario un ritorno alla tangibilità delle cose. Agendo nella medesima direzione Wenders sopprime quasi completamente la narrazione, riducendo il rischio di “artificio”, e relegando il virtuale solo nella sfera onirica, là dove il (non) senso ha ancora diritto biologico di esistere. Wenders non racconta di Hirayama perché desidererebbe in maniera ardente essere Hirayama, e Perfect Days è la testimonianza tanto di questa brama quanto della sua irrealizzabilità concreta: la tecnologia, cui il regista ha sempre proteso lo sguardo, e il suo utilizzo già lo smarcano da un apparentamento così forte. Ecco dunque che Perfect Days si profila come “desiderio”, sogno a distanza chilometrica di una vita che non è vissuta, se non attraverso l’immagine del cinema. Ozu resta un mito, un racconto attorno al focolare, l’istante onirico in cui ci si immagina altrove, e si corre con la testa all’ipotesi confortante del “se solo…”, quell’ipotesi che contiene la vita e la sua disillusione. Anche Wenders vorrebbe essere in grado, come Hirayama, le foglie alle fronde gli alberi muoversi ricevendone la mera pura e netta bellezza; anche Wenders, come Ozu, vorrebbe costruire un’immagine di senso che non abbia bisogno di orpello alcuno. Ma è solo nella problematicità di non poter eseguire questo che lui, come ogni altro regista moderno, può davvero pensare di avere ancora un legame diretto con il classico. In questa discrasia, in questo atto di sincera contraddizione, si cela l’anima più interessante (pura, forse) di Perfect Days, film che non racconta l’armonia, ma la sua compiuta impossibilità a realizzarsi.
Raffaele Meale