«…e assim partimos contra a razão,
sem nenhuma lembrança dos perigos do mar!»Fernão Mendes Pinto, Peregrinação
Era Luís de Camões, nella seconda metà del ‘500, lo scrittore ricevuto con tutti gli onori nelle stanze del re. Il poeta che, straordinario negli interstizi musicali della lingua lusitana, celebrava in versi la grandezza del Portogallo coloniale, esaltando i suoi profondi ideali e la legittimazione divina delle sue gesta. Non certo l’ambiguo navigatore Fernão Mendes Pinto, partito per la prima volta da Lisbona l’11 maggio 1537 in cerca di fortuna e tornato dopo più di vent’anni perfettamente conscio, sulla propria pelle, di come la spada fosse in realtà ben più centrale e potente del crocifisso. Per Mendes Pinto e le contraddizioni che metteva in luce, anzi, in vita ci furono quasi solo censure e divieti, tanto che il suo capolavoro autobiografico Peregrinação verrà pubblicato solo nel 1614, oltre trent’anni dopo la sua morte. Una vera e propria Odissea moderna di viaggio e d’avventura, di storie (vere/esacerbate/inventate: non lo sapremo mai) di incontri e scontri fra culture a cui era ed è magari difficile credere, ma piene di dettagli troppo precisi per non poggiare su solide basi di reale viaggio e osservazione di luoghi lontani. Mentre la maggioranza delle esplorazioni portava le prime notizie sull’America, Mendes Pinto spingeva per la prima volta dopo Marco Polo le vele, lo sguardo e la penna verso la parte opposta del planisfero, verso lo sconosciuto oriente di India, Sud-Est asiatico, Cina e soprattutto Giappone, dove – stando alla realtà/leggenda che lui stesso racconta – Mendes Pinto si arenò per caso fra i primi europei e, come baratto per aver salva la vita, introdusse nell’Arcipelago le armi da fuoco. Nei secoli successivi le mille pagine di Peregrinação sarebbero di fatto diventate il primo best-seller portoghese, tradotto in ogni lingua e introdotto in ogni corte e in ogni salotto, le sue testimonianze sull’esistenza della Grande Muraglia che secondo il libro lo stesso scrittore avrebbe contribuito a costruire come schiavo sarebbero rimaste le prime in assoluto giunte in Occidente, e le inevitabili domande sulla veridicità o meno dei suoi singoli avventurosi aneddoti sarebbero sempre rimaste al centro, immerse fra le pieghe della pura magia del racconto, dell’intrattenimento, della narrazione che, (rileggendo e) scrivendo la sua vita per i mari, Fernão Mendes Pinto ha saputo creare. Che poi è l’aspetto che più interessa João Botelho nella sua omonima e folgorante ripresa cinematografica delle “peregrinazioni”. Un film in cui le avventure dei navigatori e dei pirati sono poco più che un McGuffin in cui l’azione sempre inizia e sempre finisce ma il suo svolgimento spesso rimane fuori campo, mentre a essere realmente centrali sono proprio l’esposizione di una storia, l’ossessione per il raccontare e il raccontarsi, l’ego dell’autore che (forse sì o forse no) ha ingigantito o raccontato come vissuti in prima persona eventi solo visti o sentiti narrare, ma anche la fisiologica necessità di infiocchettare per rendere avvincente, per tenere l’attenzione, per stimolare costantemente il pubblico. Attraverso la parola, la comunicazione, la letteratura, e quindi il cinema. Passando per le diverse lingue e per l’interprete che mette realmente in comunicazione tradizioni e identità culturali agli antipodi, per i differenti credo religiosi e per la musica tradizionale riadattata a coro marinaresco, per il teatro di chi sente l’urgenza di condividere le proprie esperienze e per l’arte pittorica, lo sguardo e la messa in scena di chi trasforma le parole in immagini. Nel solco del rapporto da sempre strettissimo fra la scrittura letteraria e il cinema portoghese, ancora una volta rinnovato in un film che non esiste più, impossibile, orgogliosamente fuori dal tempo, folgorante nella complessità di arti, culture e registri che costantemente intersecano le proprie traiettorie nello scorrere rapsodico dei singoli episodi e della necessità – di Mendes Pinto tanto quanto di Botelho – di renderli linguaggio e flashback narrativo. Fra vero e falso, realtà e fantasia, poema e leggenda, avventura e musical, testimonianza e racconto, sospeso sul filo della stessa ambiguità di Mendes Pinto e di chi da secoli sogna a occhi aperti sulle sue pagine di descrizioni, battaglie, arresti, abbordaggi, schiavitù, incontri, luoghi esotici, repentine fughe e amori lontani.
Racconta brandelli della sua storia a chiunque lo ascolti, il Fernão Mendes Pinto di Botelho. Che sia scettico o che creda a ogni singola parola, che sia respinto dalle violenze o che sia rapito dal racconto. Che sia il libro ancora da terminare con cui trasmettere la storia ai figli, che sia la piccola corte di nobili che impunemente ridono delle razze, delle balene, dei serpenti giganti e dei coccodrilli incontrati lungo le navigazioni, che sia la moglie innamorata che nemmeno con la carne riesce a scuoterlo per un solo istante dalla sua viva ossessione per la memoria, la narrazione, le pagine ancora da riempire e la necessità di quel pubblico riconoscimento che arriverà solo postumo, o che sia quel palcoscenico improvvisato di fronte al fuoco su cui recitare teatralizzando per le sue bambine, con tanto di maschere e pirati, una delle tante fortunose volte in cui il marinaio è sopravvissuto a tanti dei suoi compagni e a un destino che sembrava segnato. Racconta di battaglie vinte e di battaglie perse, Mendes Pinto, di indigeni e di riti, di frecce infuocate e di fughe a nuoto nell’oscurità della notte, di comunicazioni e incontri fra culture e religioni distanti, di corpi e di anime, di innamoramenti e di puttane. Racconta di processi sul ponte e di esecuzioni sommarie, di stupri e di omicidi, di parole d’amore che mai giungeranno all’amato in Cina, così come mai giungerà sana e salva la sua promessa sposa. Racconta di mori uccisi e di figli di cagne, di rapimenti e di abbordaggi, di parole e di canzoni. Racconta di essere portoghese e peccatore, assassino e Battista/estremo untore di una commovente Deposizione, 13 volte imprigionato e 16 volte venduto come schiavo. Racconta di essere pirata e navigatore, diplomatico e commerciante, mozzo e comandante, ricevuto nelle corti e perso in alto mare alla ricerca di tesori nascosti, frustato e poi curato con amore e tenerezza, arrestato e inaspettatamente liberato, sempre pronto ad armare i cannoni ma ancor di più a parlare, esplorare, cercare di capire. E proprio come il suo traduttore di fiducia lo segue in ogni avventura e in ogni dialogo con le altre culture, João Botelho segue le parole di Mendes Pinto e le traduce, talvolta mettendole direttamente in bocca agli attori in una recitazione deoliveiriana e volutamente non naturalistica, in immagini e suoni, in luce e buio, in corpi e onde. Con una cura pittorica di citazioni che costantemente riportano a Caravaggio, a Pontormo, a Rosso Fiorentino, a Correggio, ma anche ai colletti di pizzo fiamminghi e alle atmosfere fredde e romantiche di David Caspar Friedrich, in qualche modo evocate dal chromakey azzurrato e dall’effetto notte spesso introdotto in postproduzione. Una regia ricca di movimenti di macchina e di intuizioni cromatiche, di punti di vista arditi e di abile commistione con un musical che, al pari degli unguenti curativi ottenuti dalle piante, nient’altro è che ulteriore e radicato esempio di tradizione popolare e marinaresca, messa da Botelho al servizio della parola e del discorso teorico sul racconto che sta alla base di Peregrinação, in prima internazionale ad Avellino al Laceno d’Oro 2019 dopo due anni di sconcertanti rifiuti da parte di quasi qualsiasi Festival e l’uscita in sala in Portogallo, per arricchirlo di stratificazioni culturali tutte figlie della stessa necessità di raccontare. Un po’ come in quel geniale raccordo di montaggio in cui Mendes Pinto scaglia il suo pesante libro sul tavolo, facendolo diventare il controcampo di uno schiaffo tirato oltre vent’anni prima al primo fra i tanti che direttamente dal ponte della caravella verranno scagliati in mare, e quindi il primo tassello della riflessione sulla violenza coloniale. Una regia che, in fondo, nient’altro è che la stessa creazione di illusioni e narrazioni di Fernão Mendes Pinto, con i paesaggi filmati in Asia a troupe ristretta per poi convocare gli attori e farli realmente navigare solo di fronte a Lisbona, con le teste giganti intagliate nella pietra a testimonianza di culture lontane e con la sconfinata tenerezza di mani che si sfiorano e bambù dall’altezza apparentemente infinita, mentre persino i sogni, nel rutilare di avventure, rimpianti e sensi di colpa, si fanno insanguinati fra lame e desaturazioni. Un po’ come quando ci si ritrova a ripensare alla dolce amata abbandonata in Cina giurandole di tornare, salvo ritrovarsi nel pieno di una tempesta come mere pedine nelle mani di un destino non controllabile né plasmabile. Bisogna viaggiare ancora, fra le cime delle vele e con il vento in poppa. Ci si può fermare solo per raccontare 21 anni di avventure, di emozioni, di una vita. Già è tempo di partire, con la nave, con le parole, con le immagini, con le canzoni, con il linguaggio. Basta non smettere mai di ascoltare, guardare, interessarsi, credere, dubitare, porsi domande. E soprattutto narrare, l’unico modo per vivere.
Marco Romagna