Forse Per una rosa non si potrà cambiare il mondo, ma di sicuro può cambiarne la percezione, soprattutto nello sguardo di una diciottenne che ancora, quotidianamente, lo sta scoprendo. Basta un giorno, il primo di lavoro nel bar del paese, basta il campionario umano dei gestori e degli avventori che le si parano davanti, basta la sincerità di chi lascia cadere le maschere, smette di nascondersi e di fingere, si rivela nella sua più intima natura di fronte a un buon caffè, o forse già alla prima grappa per quanto sia ancora prima mattina. Per una rosa è un film piccolo, breve e tutto sommato semplice, quanto acuto e accorato nel far emergere quanto siano sottili i confini fra la dimenticanza e l’affetto, fra l’avarizia e la generosità, fra la gioia e il dolore, fra il futuro e il ricordo, fra la vita e la morte. Perché Per una rosa un uomo può crollare, una donna può mostrarsi nella sua fragilità o nella sua risolutezza, e intorno a loro un paese può continuare a vivere distrattamente giorno dopo giorno, come se nulla fosse, dai fuochi d’artificio che chiudono la sera della festa fino al bagno ristoratore nel fiume con il quale lavare via, o forse assorbire fino in fondo, una giornata normale eppure così fondamentale nella propria esistenza.
Girato nel 2011 con gli allievi del consueto corso estivo Farecinema e presentato per la prima volta oggi, fuori concorso, alla settantesima edizione del Festival di Locarno, Per una rosa è prima di tutto un’immersione nel cinema di Marco Bellocchio. Non ci sono, questa volta, il consueto rapporto con la religione, e neppure l’ossessione per il matricidio che, sin da I pugni in tasca, ha accompagnato la carriera del regista fino al recente Pagliacci, ma la poetica dell’autore è perfettamente intatta nella centralità di Bobbio, paese-mondo che da sempre è per il cineasta piacentino un perfetto specchio e paradigma dell’intera umanità e delle sue ossessioni. C’è la giovane Elena (Bellocchio, figlia del regista già vista in Sorelle mai e Sangue del mio sangue) che prende servizio per la prima volta nel piccolo baretto di fronte a Ponte Gobbo, c’è una datrice di lavoro fresca vedova per la quale le rose, magari gettate nel fiume, sono le spine del ricordo di un marito che non gliele regalerà mai più, c’è un esperto barman che già conosce l’intero paese nella sua intimità, e poi c’è il tossicodipendente, c’è il depresso cronico con i suoi sensi di colpa per un’altra rosa mai regalata, e c’è chi con slancio psicanalitico e poetico ribalterà le sue ossessioni in un gesto d’amore soffocato, ma di rara sincerità. C’è poi, come una suggestione che arriva da lontano, la seduzione di un gioco di sguardi e di silenzi, c’è un’umanità straziata dalle sue inadeguatezze, c’è la memoria tipicamente bellocchiana perché “Le piccole dimenticanze possono rovinare tutta la vita”, e c’è persino Il regista di matrimoni, che letteralmente dirige le foto dei freschi sposini come a stuzzicare ancor di più la ferita ancora aperta della vedova – la speranza per il futuro che sorride gioiosa di fronte al rimpianto.
Per una rosa si nutre della sincerità degli uomini che Bellocchio mette in scena, in un ribollire di emozioni, reazioni e comportamenti contrastanti che riassumono in soli diciotto minuti buona parte del suo cinema. È una questione di sguardo, di grazia filmica, di tematiche che ritornano come ossessioni di una carriera, di capacità di lavorare con le suggestioni, suggerendo senza mai cedere al didascalismo e lasciando intatte tutte le contraddizioni e l’ambiguità con le quali dobbiamo convivere. Basta andare al di là delle apparenze, lasciare scorrere la vitalità degli esseri umani, immergersi fino in fondo nella realtà/finzione, proprio come ci si immerge nel fiume alla ricerca di ristoro, per dare una forma alle impressioni e alle idee maturate nel corso della giornata. Il tossicodipendente che si alcolizza per tentare di combattere la sua dipendenza dall’eroina non paga ma ha un conto aperto al bar, e non è un problema nemmeno quando ruba dalla cassa, perché vince la comprensione di chi lo ha visto crescere e non può che aiutarlo, così come vince l’amore di una madre che ripagherà sempre i suoi debiti. La proprietaria del bar, spartita fra una mancanza che la porta ai limiti della follia, qualche istinto suicida e la necessità, vissuta quasi come una colpa anziché come una legittima malizia, di ricominciare a piacere, dimostra un cuore che va ben oltre i suoi nervi scoperti per il recente lutto, proprio come è vagito di buona fede anziché di colpa quella rosa suggerita dall’istinto al depresso avventore in rotta con la moglie per essersi dimenticato il suo compleanno, ma mai comprata per avarizia e dimenticanza. È il suo intimo desiderio di fare un regalo alla donna che ama per il puro gusto di farlo, per affetto, per comando irrazionale dei sentimenti, ed è paradossale come sia proprio la razionalità del calendario e dei regali programmati a fare scartare l’uomo verso l’autocommiserazione, verso la volontà di essere malato, verso l’imbruttimento fisico e sociale. Fino alla rinascita dalle proprie ceneri?
Per una rosa è un piccolo grande film sulla necessità di prendersi i propri rischi, sulla memoria che va e viene stravolgendo chi ricorda e chi dimentica, sulla generosità, sull’umanità, sull’amore, che sia appena sbocciato oppure perduto per sempre, o che sia quello di Marco Bellocchio, sorta di Re Mida delle immagini pronto a trasformare in oro tutto quasi ciò che inquadra, nei confronti dei suoi personaggi. È un cortometraggio semplice quanto estremamente prezioso, Per una rosa, è una passeggiata in un oggi dal sapore eterno, è una nuotata che lava via l’amarezza del mondo, con cui non smettere mai di amare il cinema del “ragazzaccio” di Bobbio, più giovane e accorato che mai.
Marco Romagna