La sera del secondo giorno del Trieste Science+Fiction Film Festival già porta a una prima bella scoperta: Per aspera ad astra di Richard Viktorov è infatti un semi-capolavoro di fantascienza made in URSS e senza dubbio un’opera su cui è giusto concentrarsi, anche creando un minimo di contesto. Partiamo dal regista: Richard Viktorov è nato nel 1929 (nell’anno de L’uomo con la macchina da presa) ed è morto nel 1983, poco prima del suo cinquantaquattresimo compleanno, ed è uno dei più grandi registi di fantascienza dell’epoca, giusto accanto a Tarkovskij e ai polacchi Szulkin e Piestrak. Per aspera ad astra è comunque il suo film più celebre in patria, vera colonna portante del blockbuster sovietico: girato in 70mm con sei canali audio, scritto dal regista con come riferimento un romanzo di Kir Bulchyov, principale autore di letteratura fantascientifica dell’epoca, il film dura due ore e mezza ed è diviso in due parti, La donna umanoide e Gli angeli dello spazio, ben distinte l’una dall’altra per ritmi, narrazione, contenuto, estetica. Nel 2001 il figlio di Viktorov, Nikolai, ha montato e supervisionato una versione restaurata del film, tagliando più o meno mezz’ora, tra alcune scene che riteneva di troppo da un punto di vista narrativo e altre che invece ha preferito eliminare per motivi ideologici. La proiezione che si è tenuta a Trieste era un restauro in DCP della versione integrale originale, ed è stata presentata da un Nikolai Viktorov nervoso, umile ed evidentemente fiero che il cinema del padre riesca ancora ad avere un pubblico ad ormai quasi 35 anni dalla sua morte.
Immergersi in Per aspera ad astra è difficile perché il suo fascino è innegabile, anche solo da un punto di vista storiografico, ma ha almeno due difetti di cui è necessario tener conto: il primo è legato alla narrazione e alla sua prolissità, che tendenzialmente non irrita mai (i tempi dilatati tipici della fantascienza tarkovskiana aiutano ad allenarsi), ma quando ci si trova di fronte a comprimari alieni tentacolari che occupano circa 10 minuti di dialoghi sparsi senza però dare alcun contributo alla trama o al contenuto è normale chiedersi un attimo il perché; il secondo invece è legato all’innegabile ma inevitabile sensazione costante di ritrovarsi di fronte a un qualcosa di profondamente datato nell’estetica, ma questo difetto è assolutamente relativo perché comunque è affascinante vedere il prototipo di un alieno cinematografico made-in-URSS anni ’80, con trucchi ed effetti speciali abbastanza patetici ma che a volte riescono comunque ad affascinare, soprattutto nel mischiare l’uso dei filtri e delle luci della fantascienza tarkovskiana con un design caratteriale più vicino a quello di Star Trek. Il film si apre con la navicella Pushkin che trova nello spazio un’altra navicella, non riconosciuta dal database, rovinata e bucata, con al suo interno degli umanoidi (trattati dalla macchina da presa con una freddezza che fa già impressione dopo pochi minuti di film, a ritmo di synth un po’ carpenteriani e un po’ à la Tangerine Dream): sono tutti morti eccetto la bellissima Niya, che non si capisce se è umana, aliena o androide. Niya va ad abitare dallo scienziato Lebedev, che la accudisce come una trovatella, scoprendo lentamente i suoi poteri nascosti (teletrasporto e telecinesi). Cerca di aiutarla a recuperare la memoria e ad esprimersi con un linguaggio comprensibile. La prima metà del film è tutta qui, in una sorta di visione spirituale di accettazione di sé rispetto all’altro e rispetto alla natura, creando uno specchio di quotidianità naturalistica per un essere alieno che è più umano degli umani: insomma, un estetizzante L’enigma di Kaspar Hauser fantascientifico. L’idea di base è quella assolutamente affascinante dell’incrociare lo sviluppo quasi documentaristico (una costante scoperta spirituale e psicologica di sé per Niya) a stilemi tipici del genere fantascientifico più classico (dall’alieno truccato male al robot umanoide de Il pianeta proibito, 1956) e soprattutto a montaggi deliranti e surreali atti a delineare una sorta di ricerca più esterna di Niya, una ricerca costante a cui il cinema risponde frapponendo al suo volto assurdo la meraviglia del colore — tutto ciò grazie a un montaggio splendido, che riconferma l’importanza delle radici russe dell’arte della postproduzione. Splendida la scena in cui Niya risponde al bullismo della cotta giovanile del figlio di Lebedev con una minaccia che si trasforma, dopo un’ipnosi a distanza, in un tentato suicidio con tuffo nel mare. Il blu acqueo invade l’inquadratura creando un effetto tarkovskiano allucinante e splendido, e sembra già di vedere il tuffo tragico di coppia del Faust di Sokurov trent’anni prima. In generale i primi piani di Niya portano sempre a scene intense, spesso di natura naturalistica/elementale, delineandone un profilo di spaesamento, dolcezza, emotività, schizofrenia zulawskiana e tragicità di imponente misteriosità per un film fantascientifico.
La seconda metà del film è quella in cui è maggiormente concentrata la verve politica, che da sottotesto lentamente si trasforma nel principale scopo dell’intera operazione. Niya, il figlio di Lebedev, la scienziata che sperimentava su Niya, vari piloti, un robot e gli ambasciatori del pianeta Dessa si ritrovano nella stessa navicella, l’Astra, diretta proprio verso Dessa, un pianeta “morente” che deve essere salvato dall’aria tossica. È qui che Niya, che si tramuta da maschera dell’inquietudine ad anti-eroina noir stile Anna Karina giusto con la presenza di una parrucca, si ricorda di essere un’abitante di Dessa e decide di tornarvi per salvare il proprio pianeta d’origine. Capisce che era sempre stato questo il suo obiettivo, da quando è stata creata da suo padre Glan usando il DNA dell’allievo ed amante Rakan, ambasciatore di Dessa presente nell’astronave, che tradì il suo maestro attaccando la navicella su cui Glan era scappato. Per riuscire a sconfiggere l’osceno e assurdo nano a capo dell’azienda che vende aria pulita (e che quindi rovina la situazione dell’intero paese), Niya deve raggiungere una sorta di consapevolezza del proprio ruolo nell’ordine generale delle cose. Ovviamente, con questo complessificarsi della trama si crea una certa confusione e gli eventi diventano sempre più sbiaditi e meno chiari, e anche nelle scene più enfatiche e definite si crea una sorta di appannarsi ingenuo della logica narrativa. E ovviamente aumenta l’allegoria politica: Glan è Lenin, fautore della rivoluzione, tradito dall’uomo d’acciaio Stalin, e il fine ultimo del popolo sovietico è, con una sorta di “ricostruzione” di sé stessi (pre-Perestrojka Gorbacheviana), andare contro l’opprimente capitalismo, che dà poco spazio all’uomo. Lo spazio viene dato anzi al mostro informe che è la rabbia fantasmica del post-stalinismo, rappresentato nel film con la (visivamente poco preoccupante) minaccia di una delirante pseudo-schiuma di cappuccino che va contro Niya e l’Astra. I primi piani di Niya diventano sempre più incessanti, dimostrando come questa presa di coscienza sia simile alla presa di coscienza di classe di cui parla Marx, qui spostata su di un livello filosofico-poetico quasi surreale, più simile alla conquista del ruolo di Kwisatz Haderach nel Dune di Herbert – ed è interessante come la prima parte del film descriva una presa di coscienza spirituale e la seconda una presa di coscienza politica, come se la storia lavorasse su due piani diversi dell’alienazione marxista, prima si sconfigge l’alienazione della coscienza e poi l’alienazione politica, e infine, forse, l’autoalienazione. Questo personaggio protagonista enigmatico diventa quindi simbolo di lotta, e ciò è accentuato dal suo essere un personaggio confuso, in bilico, disumano quasi: la lotta è un qualcosa di romantico e di più emotivamente coinvolgente e tragico dell’uomo stesso, che finisce in secondo piano o addirittura fuori campo, superato e sconfitto dalla pittoresca scenografia della rivoluzione cadaverica del gas capitalista, tra uomini in maschera a gas che poggiano come avvoltoi sui tetti dei bunker ascoltando ossessivamente il grammofono e teatrali coltellate alle spalle a minacce di solletico con risate grottesche. Caoticamente enfatico, emotivamente coinvolgente e con un finale spiazzante, Per aspera ad astra andrebbe visto anche solo per il proprio interesse storiografico. Ma, grazie al rosso cielo che ha osservato la rivoluzione d’ottobre (e grazie al senso poetico-pittorico tipico dell’arte russa), c’è anche tanto, tanto altro.
Nicola Settis