“La storia del cinema è un lungo martirologio“
Gilles Deleuze, L’immagine-movimento – Cinema_1, Premessa
(precedentemente pubblicato su FilmParlato e qui ampliato)
Il martirio di un fotogramma che non può più raccontare quella che era la sua essenza, il rischio di non vedere. Ci sarebbe una bibliografia sterminata (dalla teoria, alla semiotica, passando per la filosofia pura) che si interroga sull’essere (e il non essere) di un’immagine, o almeno sul momento in cui smette di essere impressionata, e noi impressionabili da lei. Allo stesso tempo, scrivere di un film spesso equivale a cimentarsi sulla stesura di una lettera, nel momento in cui ricolleghi tutto ciò che vorresti dire ma forse ti rendi conto di non esserne in grado. Un foglio bianco, una penna e la solitudine del raccontare una distanza, di spazi e di tempi, salvare gli attimi forse, quelli che si allontanano, che ormai percepiamo sfocati nel fondo della nostra anima e che tentiamo invano di restituire in questo dualismo. Chissà cosa avrà pensato John Torres in moviola mentre guardava per la prima volta quelle venti bobine vecchie trentasette anni, chissà quale film si stava proiettando nei suoi occhi, e chissà quale lettera avrebbe voluto scrivere. Presentato all’ultimo Torino Film Festival dopo la prima di gennaio a Rotterdam, People Power Bombshell: The Diary of Vietnam Rose in fondo nasce dal caso, o meglio dalla forza di volontà di Liz Alindogan del conservare sotto il letto quei rulli stanchi, in attesa che qualcuno li riscoprisse. Poco meno di mezzo secolo fa, nelle Filippine, era una diva, quasi una dea, e interpretava le pellicole più celebri del suo paese tra cui questo dramma erotico (e politico) di Celso Advento Castillo. Una bomba, un film scomodo travestito da narrazione a luci rosse, ma con un latente spirito di dissenso. Lui, pioniere e messia del nuovo cinema ai tempi di Marcos, è mancato pochi anni fa e non restava solo che, a un genio incostante dell’ultima folgorante generazione di cineasti filippini come Torres, recuperare la carcassa di quest’opera. Perché Vietnam Rose oramai non era più solamente un film incompiuto, ma il diario dell’avventura di Liz, la sua giovinezza fuggita come quella del suo popolo.
Contro tutti coloro che pensano alla possibilità di un cinema solo digitalizzato, all’era dei pixel, all’archiviazione su hard disk. Dedicato al guardare qualcosa che sia vivente e pulsante, cioè che si decompone e che riacquista nuovi sensi e significati proprio attraverso il segno, a ciò che il tempo non cancella, a quello che continua il suo movimento. La traccia video è più che mai deteriorata, in piena sindrome acetica ed ossidata, spesso composta dalla stessa pellicola rovinata che ha corroso tutto il fotogramma rendendolo percettibile ma non più realmente visibile. Pare la rievocazione di un’immagine d’avanguardia che possiede una memoria sempre più materica con l’avanzamento della propria decomposizione: scavi di celluloide riesumata dalla realtà, stratificazione di azioni fagocitate ed erose dal tempo, salvate e fissate un solo attimo prima del loro definitivo deterioramento. La traccia audio originale invece è andata quasi definitivamente perduta e, da ciò, la ricerca dello stesso Torres del cast originale che ora descrive l’esperienza del set, claustrofobica quanto utopica, durante lo scorrere del film, personaggi che a distanza di tutti questi anni commentano fuori campo la finzione della stessa scena che allora interpretavano. Il fascino e la deriva metalinguistica di un film del genere scaturisce da un inafferrabile e continuo ribaltamento dei rapporti in cui la storia diventa la messa in scena del sogno e in cui la natura di ogni immagine, la sua texture, è epistemologicamente incerta e suscettibile di essere manipolata non più per il bene della finzione, ma per lo scorrere della durata che segna fisicamente il supporto. Una doppia traccia, un doppio ritrovamento per un doppio film. People Power Bombshell: The Diary of Vietnam Rose incarna un cinema che non è solo risultato e declinazione di una storia antecedente e strutturata, quanto fondamento e genesi possibile di una storia nuova, dalle prospettive di nuovi significati. Legata alla teoria di Warburg (e dalla lettura di Didi-Huberman) l’immagine che ci propone Torres è sorgente di una narrazione che si fa storia proprio per rendere dignità a ciò che è andato perso; è un’immagine che vive dunque nella propria totale acronisticità, nel proprio rapporto fondativo con l’esterno, nell’intervallo possibile che la temporalità definisce.
L’ultimo dualismo è quello che disegna il destino di una nazione e di un Popolo, un’identità di drammi naturali e storici. Il film si apre, e si chiude, con un tornado misterioso, mentre le anime che lo attraversano vagano su una zattera di allucinazioni attraversando una disumana umidità alla ricerca della sopravvivenza, i loro volti appena percepiti che paiono scolpiti da un incubo, e ancora scorre vivido il dramma collettivo di coloro che per quattro mesi vissero realmente su quell’isola nella speranza di finire il film a tutti i costi, anche in mezzo alla rivolta. Sono metafore di senso e di forze ostili verso cui gli uomini sono invitati a partecipare, attraversando eventi che non sono mai del tutto decifrabili e che rivivono in uno straziante vortice di memoria e di fantasia che lega il declino e la rivolta verso la dittatura di Marcos con una proto-tipica visione autoctona dell’invasione statunitense in Vietnam (anche se girata nelle Filippine, entrambe terre di conquista). Ma in fondo, in People Power Bombshell: The Diary of Vietnam Rose, nulla può essere completato, e il fascino umano dell’incompiuto può solo far germogliare la corrispondenza su un film altro, che confonde luoghi e tempi, offusca il reale e il fittizio, che crea un mistero costante nella dissoluzione che vede gli spettri di un cinema e di uno spazio intrappolato all’interno di celluloide in decomposizione, finalmente liberato dal tempo. Il sacrificio di un’opera non sarà mai vano. Solo nel finale appare la macchina da presa e non si percepisce se fosse nel montaggio originale del film, parte di un backstage o girato dello stesso Torres. Poco importa, quel che conta è la sopravvivenza, ovvero le immagini che portano sopravvivenze traslando i tempi e i significati. Tutto ciò può destabilizzare, ridiscutere fantasmi che nell’impressione di una pellicola lottano continuamente una battaglia costantemente persa contro il tempo. Nel gioco del passato, declinato in un nuovo presente, fondamentalmente c’è la prospettiva di un futuro. Come se fosse la goccia di inchiostro, o la lacrima, che chiude una lettera, come se fosse destinata a Liz o all’amica lontana che si siede di fianco a te al cinema, come se ognuno di noi sotto il letto custodisse la propria giovinezza che sfugge attimo dopo attimo, la propria piccolissima favola che ogni giorno rischia di perdersi per sempre. Come se noi stessi fossimo la cariatide del nostro passaggio in movimento, rasentando continuamente l’oblio. Pensiamo dunque a un’immagine, una sola, che sta scomparendo dalla nostra mente, riportiamola a noi, ricostruiamola. Sarà un po’ come poter rivivere, o almeno rivedere.
Erik Negro