PENINSULA (2020), di Yeon Sang-ho
«Zombies don’t run!»
George A. Romero
Di fronte al dittico zombie firmato da Yeon Sang-ho nel 2016, era stato inevitabile pensare a come l’autore sudcoreano sembrasse trovarsi più a suo agio con la sua “solita” animazione che nella direzione “dal vero”. Una caratteristica sulla carta più che comprensibile, per un animatore che con Train to Busan si ritrovava alla personale opera prima su un set in carne e ossa, se non fosse che ciò che già al tempo appariva paradossale era come questo maggiore agio non dipendesse in alcun modo da questioni di natura tecnica, e quindi dalla maggiore e minore esperienza nei vari campi del regista, ma si trovasse semmai nella progettazione, nel pensiero, nella scrittura della storia e dei personaggi, come se la maggiore libertà che i disegni avrebbero poi offerto in fase di produzione avesse aperto in sceneggiatura a una maggiore e più strutturata creatività, a ben più profonde stratificazioni, a un discorso cinematografico più autoriale. Il problema di Train to Busan non era in alcun modo da rintracciarsi in un’eventuale mano acerba dell’esordiente, e anzi è stata proprio la sua inattaccabile spettacolarità mainstream a cavallo fra oriente e occidente a regalargli il successo internazionale, così come non era l’esperienza dell’animatore al lavoro già da una decina d’anni il punto di forza di Seoul Station. Erano la stesura di più e meno buone sceneggiature, semmai, il vizio e la virtù dei due lavori. Da una parte un film live action tutto sommato privo di particolari guizzi e originalità, ma senza dubbio avvincente e sul fronte tecnico perfettamente orchestrato nella sua messa in scena di treni e mostri in corsa, e dall’altra il suo prequel metropolitano a cartoni destinato invece a rimanere poco più che un cult di nicchia, tutto sommato poco conosciuto e visto ancora meno, che esattamente all’opposto aveva forse qualche limite visivo nell’animazione parziale ma una straordinaria scrittura che riportava al centro commerciale e alle metafore anticapitalistiche già di Romero. Stupisce quindi solo relativamente che Peninsula, ritorno di Yeon Sang-ho dopo quattro anni alla sua Corea zombificata e alla direzione di macchina da presa e attori, faccia corrispondere a una regia di spettacolari scene d’azione una sceneggiatura piatta, banale e prevedibile per situazioni e per personaggi, incapace di ragionare in maniera approfondita su ciò che lei stessa suggerisce e mette in scena, in cui la credibilità e il senso logico lasciano troppo spesso il passo a forzature, buchi e approssimazioni, fino a un ralenti finale dalla retorica ampiamente oltre i limiti del criminoso. Ma andiamo per ordine, se possibile.
È curioso come sia stata un’epidemia a impedire a Peninsula la prima passerella come proiezione di mezzanotte del (non) Festival di Cannes 2020, cancellato dal Covid. Un film, presentato adesso alla 15ma Festa del Cinema di Roma in attesa della distribuzione con Tucker, che inizia proprio con un virus letale e la disperata fuga dall’infezione, con il non fidarsi degli altri, con i servizi di telegiornale che non parlano d’altro che dell’epidemia, con la perdita degli amati e con i Paesi vicini che chiudono i confini ai profughi per lasciare il contagio relegato solo nella Penisola coreana, o meglio nella metà a Sud, perché nel Nord che è già chiuso da solo l’apocalisse zombie non è mai arrivata. Eppure quello sulla Corea dittatoriale dei Kim sarà solo un riferimento fugace destinato a non avere alcun tipo di seguito. Il primo di una lunga serie, come quelle che non saranno le riflessioni sul “nuovo” senso di famiglia all’interno della comunità che deve salvarsi (è evidente che il nonno non sia realmente il nonno e che le due bambine non siano sorelle biologiche, ma questo aspetto non viene mai esplicitato né tanto meno analizzato), come quella che, al di là di un’arena/gabbia in cui far disperatamente fuggire per due minuti i prigionieri vivi dagli zombie fra le divertite scommesse dei paramilitari, non sarà una reale riflessione sul nuovo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, come quella che, al di là di qualche mezzo rumoroso e luminoso con cui ingannare e attirare gli zombie, non sarà una reale riflessione sulla resistenza né sulla necessità di convivere con il mostro. C’è solo uno stanco adattare le vite alla situazione, c’è il vivere di notte, c’è il diventare criminali. Mentre la sospensione dell’incredulità fatica a resistere di fronte a derrate alimentari mai scadute in quattro anni, a camion dalle gomme ancora turgide (alle quali peraltro a nessuno degli inseguitori viene mai in mente di sparare) che sempre dopo quattro anni tornano in moto semplicemente girando la chiave nel quadro, alla proposta da parte della criminalità di Hong Kong di lasciare metà del bottino ai profughi di fatto costretti a tornare a Seul per recuperare un carico di dollari rimasto altrettanto incredibilmente incustodito eppure inattaccato sul piano di carico di un tir, o ancora all’irrefrenabile stupidità di chi, durante un’apocalisse zombie, trova un cadavere e seppure armato fino ai denti non gli spara alla testa prima di avvicinarsi, ma gli consente di trasformarsi e ucciderlo proprio mentre scopre il fianco. Così come è difficile credere che una berlina della Kia possa mandare fuori strada un ben più pesante camion, che i caschi blu dell’ONU possano intervenire ma per quanto armati fino ai denti non sparino agli zombie guardando impalati morire un essere umano, che una madre possa affidare le figlie a uno scapestrato conosciuto il giorno prima o ancora che un infetto morsicato, e quindi una persona con un segno visibile, possa lentamente zombificarsi su una nave di profughi su cui è salito evidentemente senza controlli, mentre le sue vittime si trasformeranno in non-morti quasi subito, senza nemmeno il tempo di rendersi conto della loro prima dipartita.
Le creature vittime del morso/morbo sono esseri pericolosi e famelici, inquietanti e velocissimi, che non incarnano più il capitalismo ma sono meri ostacoli a cui sparare o da falciare con l’auto in corsa. Il resto è una prevedibile vicenda che intreccia il protagonista Jung-seok costretto a tornare da Hong Kong nella Seul zombificata per recuperare il denaro, il cognato che verrà catturato dai vivi della famigerata unità 631 e reso novello gladiatore, la famiglia allargata sempre rimasta in Corea di quella donna che, nel momento della fuga, si erano rifiutati di aiutare, e la nave al largo che aspetta solo una chiamata dal cellulare satellitare per portare il prezioso carico a Hong Kong. Le scene d’azione, per quanto visivamente impeccabili (e pure alla lunga un po’ ripetitive), nulla possono contro i reiterati scivoloni di scrittura, fino alle pallottole sul nonno e all’esito scontato del più melenso degli «almeno provarci» per salvare una madre pronta a sacrificarsi per mettere la prole in salvo. E anche il mero intrattenimento si perde così lungo la strada, fra salti e incoerenze, fra passaggi scolastici e pennellate di retorica. Certo, rimane il fascino dell’ambientazione post-apocalittica, rimangono le sequenze notturne illuminate a giorno dai razzi lanciati dai banditi, rimane la buona fattura delle sequenze di pura azione, perché ben più di un action che di un horror si tratta. Rimane la guida (magari di una bambina) a velocità folle e precisione millimetrica fra le strade deserte della città ormai cadente e distrutta, rimangono le macchinine radiocomandate con cui distrarre gli zombie, rimangono le luci nella notte e i fari sparati in faccia ai non-morti per usarli come arma contro il nemico. E rimane pure l’essere spesso portati a tifare per gli zombie, perché in realtà la vera lotta raccontata in Peninsula è fra gli uomini ancora vivi, abbruttiti dalla lotta per la sopravvivenza o ancora capaci di provare sensi di colpa e di sentirsi in debito, resi cinici e spietati dalle circostanze oppure ancora capaci di amare e immolarsi. Ma non basta quando a mancare è il film, la sua anima, un qualcosa da dire, o per lo meno una sceneggiatura all’altezza delle evidentemente altissime cifre produttive. Come in Train to Busan, in Peninsula non c’è nulla della metafora politica romeriana, non c’è nulla del reale senso degli zombie, non c’è nulla della loro progressiva umanizzazione, c’è solo l’uomo che sa svelarsi ancor più mostruoso di loro. Ma se il precedente live action aveva “solo” troppo poco da dire, qui a mancare è anche, molto più banalmente, una tenuta narrativa, una vicenda in qualche modo credibile e priva di cadute, una gestione dei tempi che non preveda necessariamente l’accetta e gli spiegoni affidati alla televisione che sarà l’unico modo per scoprire che sono passati i famosi quattro anni. Seoul Station, in questo senso, saluta da lontano, distante anni luce, apparentemente irraggiungibile per quanto l’autore sia lo stesso. Non un punto di partenza, ma un grosso rimpianto. Purtroppo.
Marco Romagna