È esattamente alla nota carta carbone prodotta dall’omonima azienda tedesca di cancelleria, che si riferisce il titolo Pelikan Blue. Quel foglio copiativo, vero e proprio inconsapevole protagonista di questa storia, utilizzato per oltre un decennio dal 1989 fino all’automazione delle biglietterie dalle Ferrovie di un’Ungheria appena trasformata dalla sua uscita dall’URSS e dal suo passaggio dall’altra parte della Cortina di Ferro, seguito a ruota nel giro di pochi mesi dalla caduta del Muro di Berlino e la definitiva dissoluzione del Patto di Varsavia, per compilare a mano e identici alla loro matrice i primi titoli di viaggio internazionali emessi dopo decenni di confini chiusi dal sistema socialista. Ma anche, a causa di una specifica caratteristica della sua composizione, il foglio copiativo che per tutti gli anni Novanta ha permesso di viaggiare per il mondo a un’intera generazione di giovani ungheresi che in nessun modo si sarebbero potuti permettere di pagarselo. Merito di una reazione chimica, scoperta a suon di tentativi da tre ragazzi che volevano solo viaggiare e che invece si sono quasi inevitabilmente ritrovati a contraffare migliaia di biglietti per altrettanti coetanei venuti a conoscenza della loro abilità, capace di cancellare qualsiasi traccia delle scritte copiative originali senza rovinare il cartoncino: era sufficiente comprare ai botteghini della stazione un economico titolo di viaggio per la destinazione estera più vicina per trasformarlo in un biglietto internazionale vergine e nuovamente compilabile, con il quale raggiungere in prima classe qualsiasi città nell’Europa dell’Ovest. Una piccola truffa – perpetrata verso la compagnia ferroviaria locale ma in realtà a danno di quelle estere, per quanto sia vero che «i treni partono comunque, con o senza passeggeri» – che ha in sostanza portato la libertà di viaggiare a un’intera nazione, e che il regista László Csáki, per sua stessa divertita ammissione quando qualcuno dal pubblico del 41mo Torino Film Festival gli ha chiesto come fosse venuto a conoscenza di questa storia più volte viaggiatore con alcuni fra questi biglietti falsi, trasforma nel primo documentario d’animazione magiaro di sempre. Un lavoro nato partendo dalle interviste audio ai veri protagonisti – i tre falsari, il poliziotto che li ha scoperti, altri clienti che hanno viaggiato con i loro biglietti – per poi disegnare a mano sulle loro voci e sulle loro testimonianze uno spigoloso character design da qualche parte fra Beavis & Butt-Head alla conquista dell’America e il più recente Bricklebarry, senza dimenticare di ritornare ripetutamente dall’astrazione del disegno alla più materica realtà punteggiando lo scorrere di Pelikan Blue di luoghi, oggetti e gesti filmati da solo in live action nella grana pesante del Super8. Mentre un intelligente montaggio strutturato a flashback alterna i piani temporali delle testimonianza e della vicenda trasformandone ogni fase in una piccola commedia thriller quotidiana, pregna di suspense anche quando vira verso l’ironia, in cui prima non trovare il giusto dosaggio di solventi per riuscire nell’impresa, poi essere terrorizzati dal controllore a bordo del primo convoglio, poi tentare invano di schivare le domande di biglietti falsi di amici e sconosciuti, e infine ritrovarsi di fatto in un cul-de-sac, da una parte l’allargarsi a macchia d’olio delle richieste sotto la minaccia di una denuncia fino alla necessità di trasformare il gioco in una vera e propria associazione, e dall’altra il progressivo e inevitabile avvicinarsi della legge e delle sue minacce.
Il risultato è un film interessante e ambiziosissimo, irresistibilmente spassoso nel raccontare ogni trovata dei falsari per riuscire nella loro impresa ma soprattutto capace di innestare nella loro parabola e in generale nella libertà di poter finalmente vedere il mondo il paradigma di un momento storico, o meglio degli effetti tangibili della Storia su un popolo che, a costo di trovare stratagemmi per accelerarla, si trova a viverla. Un affresco di un Paese passato all’improvviso da un mondo all’altro, dalle storture della dittatura alle nuove storture del Capitale, da una vecchia generazione ancora e forse per sempre legata ai dettami del socialismo a una nuova generazione aperta al mondo, nel quale poco importa che l’animazione, comprensibilmente parziale e a costo relativamente basso in un’industria magiara ben lontana dalla sua età dell’oro (anche se quest’anno, fra questa tecnica tradizionale che guarda agli anni Novanta americani e il rotoscopio sci-fi di White Plastic Sky, ha avuto modo di stupire intraprendendo strade in precedenza poco o addirittura mai battute), possa qua e là presentare qualche imperfezione tecnica o nella fluidità. Quello che conta è il suo essere perfettamente funzionale alla vicenda che Csáki vuole mettere in scena, forse l’unico modo per ricostruire un archivio impossibile, per rendere immagine, ma non finzione, ciò che è successo e non è mai stato girato, ma che non per questo è meno corrispondente alla realtà documentaria. Il resto sta negli anni del passaggio progressivo dalle musicassette ai CD, ma senza mai abbandonare quelle sonorità tipicamente new wave, post punk e synth pop (basterebbe il momento in cui in colonna sonora deflagra la magnifica Induljon a banzáj dei Bonanza Banzai…) a loro volta appena liberalizzate nei Paesi ex-sovietici dopo il lungo periodo di clandestinità (e di dischi di fortuna a 33 ma soprattutto 45 giri stampati, giusto per pochi ascolti prima che si autodistruggessero, sulle lastre mediche, come insegna la biografia di Viktor Coj e dei suoi Kino) imposta dal regime. Un decennio nel quale quell’unico biglietto ferroviario contraffatto per vedere qualche pezzo di mondo con gli amici è cresciuto fino a diventare cinque, dieci, cento, mille biglietti per mille viaggi, fino alla necessità di monitorare le biglietterie delle stazioni per scegliere la cassa giusta, fino a una vera e propria rete di clienti e di viaggiatori, e poi fino alla decisione di spiegare il metodo ad altri, con il senno di poi il vero motivo della salvezza dei protagonisti condannati solo a una forte multa ma non ai temuti sei anni di carcere, perché anche con il loro arresto le contraffazioni sono continuate esattamente come prima. Sempre con una storia alternativa già pronta da raccontare se scoperti, e passando per veri e propri momenti di terrore quando cambia la composizione chimica della carta e bisogna trovare un modo perché i biglietti non diventino scuri durante il processo di alcalinizzazione, per la leggenda incubale dell’unico tremendo controllore simile a un clown in grado di riconoscere i ticket falsi, e poi ancora per le birre e gli spinelli dell’Olanda, per le bocche dei clienti che si moltiplicano in un morphing apparentemente infinito, per l’unico compratore che anziché bruciare i suoi titoli di viaggio fasulli li aveva tenuti per ricordo, e poi per una retata notturna nella quale veder scoperti un biglietto bianco, i timbri falsi con cui vidimarlo e una cassetta della segreteria telefonica ricolma di prove incriminanti. Eppure non era mai stato il lucro, il vero scopo dei tre antieroi protagonisti, destinati a prendere altre strade e nemmeno più tutti e tre ancora in vita, ma nel mondo delle immagini animate per sempre insieme Nottambuli in un’aperta citazione del celeberrimo dipinto di Hopper. Farsi pagare una piccola somma era solo una regola autoimposta, il loro modo per risultare credibili e professionali, mentre sì violavano la legge e truffavano compagnie ferroviarie, ma consentivano a un intero Paese, grazie alla Pelikan Blue, di vedere per la prima volta Parigi, Roma, Berlino, Stoccolma, il mondo. La libertà da decenni di regime e da un presente di povertà, o per lo meno un atto puro e sovversivo, di ribellione e di creatività assoluta. Proprio come realizzare un documentario animato dove non era mai esistito, a ben vedere. O proprio come scavare nel cuore della colpa fino a trovare l’apice della virtù.
Marco Romagna