La prima cosa da dire su Pearl può essere, per i fan di Ti West e per chi ha seguito la stagione cinematografica di quest’anno, la più grande delle banalità, ma al Lido, dove il film era fuori concorso nella 79esima edizione del festival organizzato dalla Biennale, molti non lo sapevano: è un prequel di X, uscito in Italia come “A sexy horror story” sempre nel 2022. X e Pearl hanno in comune anche la casa di produzione, la A24, e la presenza della medesima protagonista e co-sceneggiatrice, Mia Goth. Tra i due film, lei interpreta due ruoli, quello di Maxine, protagonista di X, e quello di Pearl, antagonista in X e vera protagonista del film eponimo, che è una vera e propria “origin story del villain” dell’altro film, in pura tradizione fumettistica (o da franchise blockbuster). Entrambi i film tuttavia hanno un approccio strettamente cinematografico, dedicato e appropriato al grande schermo, vagano tra lo ‘slasher’ e il ‘serial-killer thriller’ che nel contempo affrontano un’estetica e una narrativa ultra-contemporanee nei ritmi e nei temi, e una regia e una direzione della fotografia che giocano ironicamente con la trama prediligendo una nostalgia di forme filmiche del passato – ma se il riferimento di X è il cinema anni ’70 (l’horror e l’erotico nello specifico), quello di Pearl va un po’ a ritroso, verso gli anni ’40 e ’50, Mary Poppins, Il mago di Oz, i melodrammi di Douglas Sirk – e i futuri film di West saranno impostati in modo simile, con l’horror come testo e un altro contesto/sottogenere come sottotesto. Pearl di per sé è un personaggio parodistico e ironico, iperbole grottesca e sociopatica di un archetipo da principessa Disney; parla cogli animali, sogna l’emancipazione, è talentuosa, bella, e alimentata da desideri di autonomia rispetto a una società grigia che la ghettizza ingiustamente, come una classica, bidimensionale ‘Cenerentola’. X raccontava la storia di Maxine, attrice pornografica che, insieme a una troupe ridotta di addetti al mestiere, sognando tra una striscia di cocaina e l’altra di diventare una star come Linda Lovelace, approdava in una casa-fattoria nella campagna texana a fine ’79, ospitata cogli altri da Pearl e da suo marito Howard, anziani. I due, scandalizzati dal set osé, finiscono per assassinare i loro ospiti uno dopo l’altro e invidiosi dei loro corpi giovani. Lo sguardo della macchina da presa, che cerca il desiderio dei personaggi creando una storia fittizia di erotismo, diventa lo sguardo del regista, e dunque come conseguenza dello spettatore, che cerca il dolore e la paura, in un risultato folle e divertente, che mischia registri e sprofonda, dopo poco, nel vero, concreto timore esistenziale dell’invecchiamento. In Pearl, il decadimento del personaggio titolare è scritto e determinato dal film precedente: ci resta solo vedere come lei e Howard siano approdati alla follia.
Ma il nuovo film di Ti West parte col presupposto di costruire un personaggio e una situazione senza rispondere alle domande scontate. E infatti così è; di Pearl non si vede l’inizio della follia, che è già evidente sin dall’inizio, né si vede come Howard, che appare tardi, finisca per convincersi a diventare complice di sua moglie. A Pearl ciò non interessa: nei titoli di testa, la giovane Pearl, senza le rughe prostetiche di X, usa un forcone per ammazzare un’oca, che dà in pasto a un alligatore nel lago adiacente alla sua casa – e più tardi conferma che i suoi impulsi omicidi già esistevano all’inizio della storia, e che è stato solo il suo degenerarsi a portarla alle vittime umane. La follia c’è già dal nero prima del film. La famiglia di Pearl ha qui il ruolo che Pearl e Howard hanno in X, sono una (la?) generazione precedente, afflitta da pregiudizi e delusioni che sfogano con violenza (senza poter prevedere le conseguenze che si ritorceranno loro contro) su protagonisti più deboli ma pronti a esplosioni vendicative. La madre è un riflesso specchiato della figlia, colma di frustrazioni e psicodrammi; il padre, devastato dall’epidemia spagnola (eco del Covid sin dalle mascherine che i personaggi devono indossare ogni qual volta vanno in città), è solo uno spettro di una severità che non c’è più, perché non ci può essere. La violenza parte come reazione a ulteriore violenza, repressa e pregressa, com’è classico in molti drammi famigliari, a essere meno classico è l’esprimersi di succitata violenza in Pearl, una brutalità che sembra davvero scaturirsi dal niente ed espandersi senza limiti, come pura, unica espressione di sé. Schizofrenia o psicopatia che sia, le definizioni psichiatriche non ci interessano, il ‘punto’ del personaggio di Pearl finisce per essere analogo a quello di Maxine in X invece che una genesi del pregiudizio d’anzianità che le arriverà negli anni ’70 dell’altro film. Pearl, come Maxine, vuole essere una star (da qui la stessa attrice), ha solo altre ambizioni, più che a Gola Profonda punta al varietà dei tempi della prima guerra mondiale, agli inizi del cinema, del ballo e dello spettacolo, quando ancora la pornografia era un miraggio, una nuova applicazione di un mezzo innovativo.
Pearl ci riporta dunque a un’epoca di apparente spensieratezza ma evidente conservatorismo, quando appunto il cinema era un’innovazione, la rivoluzione e vera nascita dell’audiovisivo, della curiosità nel guardare al di fuori di sé e della realtà vicina circostante. È l’opposto del mondo di X in cui il sesso è conclamato come valuta di scambio per l’immagine in movimento, agli inizi di quello che poi diventerà il porno moderno, tra esibizionismo, il neo-sex-work e il capitalismo di PornHub. Maxine può intuire cosa vuol dire diventare un’immagine perché non ha niente da perdere e niente di cui vergognarsi, mentre Pearl idealizza la possibilità di divenire idolo, fotogramma, simbolo di se stessa; quando invece diventerà vecchia, assassina, disperata, a far l’amore come gesto di resistenza e non più con la forza del sentimento. Esaspera il suo scopo solipsistico fino al totale snaturamento. Ti West gira inquadrature ad ampio respiro: l’apertura da musical idilliaco, il montaggio specchiato à la Rorschach verso la fine, la replica del Technicolor sui campi di grano, e persino i primi piani di Mia Goth, che parli per minuti e minuti o che sorrida forzatamente immobile fino alla fine dei titoli di coda, hanno un ritmo che fa sussultare in mezzo alla storia, e che crea storia, dà forma e cinema all’incubo, così realizzando il sogno di Pearl, rendendola simbolo e spettacolo. Mia Goth, che ricordiamo nuovamente essere anche mente dietro la storia insieme al regista, recita in modo straziante e sorprendente, cambia timbro della voce e tono della personalità a seconda di un perpetuo, irrazionale fluttuare dello stato d’animo, da intimi sussurri confessionali a grida infantili di delirio dall’isteria inquietante. E ce n’è di ogni, dai cagnotti che assaltano un maialetto fino a un ballo in mezzo alle esplosioni e a soldati morti viventi – è un mondo in cui l’immagine ha vinto, nulla è vero e tutto è costruito e posticcio, ogni svolta è sia prevedibile e telefonata (data la prassi del genere) che genuinamente scioccante. Pearl è a modo suo indipendente e apprezzabile anche senza X, è la spirale discendente di un simbolo di un fallimento, un’antitetica nuova eroina per il mondo dello slasher di cui si conosce già abbastanza anche da un solo film. Quello che propone Ti West è alla fine una fiaba mista a un incubo, nella forma di un divertissement, per raccontare il collasso delle certezze e l’ossessione per l’ambizione di un mondo in continuo cambiamento.
Nicola Settis