«E’ sempre il momento di fare una commedia», affermava Nanni Moretti alla giovane regista interpretata da Jasmine Trinca in una delle sequenze più iconiche de Il caimano, e questo assunto si dimostra quantomai vero all’interno di un festival mastodontico come la Mostra di Venezia e le varie sezioni autonome e parallele che ne completano il nutrito programma, spesso avaro di levità e ironia. Anche (forse soprattutto) quando il riso è contrapposto e stemperato da un dolente e ormai introiettato male di vivere. È il caso di Peacock dell’esordiente (nel lungo) cineasta austriaco Bernhard Wenger, in competizione alla Settimana Internazionale della Critica 2024. Prendendo spunto e ispirazione, in maniera ora più vaga e ora più smaccata, da certo cinema scandinavo della contemporaneità (il due volte Palma d’Oro Ruben Östlund su tutti, ma anche Roy Andersson nella gestione dei tempi narrativi, “spezzati” e sospesi), il giovane regista/sceneggiatore imbastisce una critica al vetriolo alla vacuità senza sostanza della società civile occidentale, che di civile ha ormai solo le forme esteriori e i vuoti riti d’interazione formale, completamente sganciata da mondo e Natura. Quella stessa Natura portata all’interno del vivere metropolitano prelevando di peso alcune componenti, come il pavone del titolo che sintetizza metaforicamente l’agire del protagonista Matthias (un bravissimo Albrecht Schuch, perennemente all’interno del fotogramma e d’impressionante presenza scenica), ma di cui si è ormai persa ogni memoria di reale interazione. Semmai è la città, Vienna nel caso specifico, a farsi caravanserraglio d’istinti sempre più difficili da reprimere in nome dell’educazione borghese e delle “buone maniere”, ex gabbia perbenista ora ultimo rifugio prima del tutti contro tutti definitivo. Matthias è pura esteriorità: fisico scolpito, baffetti, auto di ultima generazione, appartamento alla moda riempito di oggetti di design, un’avvenente fidanzata. Lavora per un’agenzia che prova a tappare le voragini esistenziali che si aprono nelle vite altrui; se si ha bisogno di un fidanzato colto, di un figlio perfetto o anche solo di un interlocutore che stia lì a fare da punching ball, è a lui che bisogna rivolgersi. C’è però un problema, non da poco: impegnato ad interpretare persone e situazioni diverse, Matthias ha completamente perso se stesso…
La capacità del regista d’indirizzare sguardo e sentimenti dello spettatore nella direzione voluta è segno di grande maturità nonostante l’età ancor giovane (è del 1992, e i suoi corti hanno ricevuto svariati premi nei festival in giro per il mondo); la composizione dell’inquadratura è puntualmente volta a ottenere l’effetto desiderato, con i props di scena posizionati alla bisogna. Si veda, ad esempio, la sequenza in cui la compagna di Matthias gli comunica l’acquisto di un cane: il cane è lì, immobile, sembra speculare all’orso bianco in plastica comprato come abbellimento da Matthias qualche tempo prima e solo alla fine muove la testa verso un giocattolo di plastica. Tutto semplice? Assolutamente no, perché (e ci ripetiamo per l’ultima volta) i tempi di scrittura e montaggio, se si vuole suscitare il riso, sono tutto. Si è già precedentemente nominato Ruben Östlund e il suo cinema grottesco e imperniato sullo sberleffo antiborghese, Wenger s’instrada su quella linea, ma con molto più cuore e amore per i suoi scombinati personaggi, senza restituire mai l’impressione di giudicare tutto dall’alto, in maniera fredda, distaccata e un filo presupponente. C’è una sequenza in particolare, quella finale, che richiama apertamente la performance di Terry Notary come scimmia umana (lui che, insieme a Andy Serkis, ha interpretato in motion capture praticamente tutte le scimmie proposte dal cinema statunitense negli ultimi anni) in The Square; ma mentre nel film scandinavo vincitore della Palma d’Oro la performance è un “a parte” abbastanza slegato dal resto, in Peacock è il culmine emotivo di film e personaggio principale, una liberazione che emotivamente si posiziona più dalle parti dello schiaffo al bieco affarista Bracci con susseguente bagno indesiderato in piscina, da parte del sordiano Silvio Magnozzi, in Una vita difficile di Dino Risi, uno dei film migliori (a parere di chi scrive) dell’intera produzione cinematografica nostrana. Lo scarto rispetto a Risi è dato dalla diversa reazione di ambiente e contesto: all’iniziale scandalizzarsi succede presto il dubbio di “non star capendo qualcosa”, di essere di fronte ad arte performativa, di non riuscire a riconoscere il bello nel/del qui e ora.
Perché il punto dell’opera è soprattutto questo. Nella rincorsa al riconoscimento immediato del segno si ottiene soltanto lo scivolamento sulla superficie, mai la profondità. Il lavoro di Matthias è in fondo proprio questo (avevamo già visto qualcosa del genere anche in Family Romance, LLC di Werner Herzog, seppur nella variante orientale), fornire una superficie riflettente su cui il cliente può specchiarsi, provare immediato godimento e passare oltre. Viene abbandonato dalla compagna (e tutto il resto della sua vita va a rotoli, fra minacciosi ormai ex-mariti che cercano vendetta, oche che entrano dal tettuccio aperto della macchina e ulteriori illusioni d’amore che ridiventano amletico dubbio fra la realtà e la finzione) non perché sia una cattiva persona, ma perché non è più una persona, è solo la sintesi epidermica di mille altre, consapevole e anzi oramai irrimediabilmente intrappolato in quella stessa recitazione «nella vita reale» dalla quale a differenza degli attori non può mai, nemmeno per un secondo, «fare una pausa». Non trovate sia, e ci si scusa per l’espressione indubbiamente calzante ma abusata quasi più del pigro uso di Alexa e IA similari, una perfetta metafora per definire l’umano contemporaneo, che con le sue propaggini digitali sorvola l’intero pianeta senza atterrare mai davvero da nessuna parte? Non c’è tempo migliore di questo, dunque, per fare una commedia, che oltre a farci ridere ci dia un’idea dell’horror vacui in cui senza alcuna possibilità di scampo, nemmeno la morte, è ormai immersa la società occidentale. Come una fila senza possibilità d’uscita. Al punto che, questa volta, a forgiare quella che tecnicamente è una «recensione online positiva» non ci si può che sentire un po’ complici. Pur consapevoli che si tratta di tutt’altro tipo di recensione.
Donato D’Elia