PATERSON (2016), di Jim Jarmusch
Ecco in Croisette, finalmente, un film palmabile.
Dopo una prima settimana di concorso infervorata soltanto dal grido di battaglia di Ken Loach, ecco che arriva il poeta Jim Jarmusch, con Paterson. Il titolo è l’ambientazione e il nome protagonista. Una coincidenza simbolica, una dichiarazione d’intenti poetica: un uomo che si chiama come una città, un cittadino che è il luogo stesso che abita. In comune con Loach, in effetti, c’è un piacere intimo nel racconto della normalità, ma siamo su territori completamente diversi, e la nostra è in effetti solo una suggestione, forse dettata più dal cuore che dallo spirito critico.
Adam Driver (ormai attore di grandissimo calibro, la sua recitazione in sottrazione è da alta scuola, e va detto che fu Saverio Costanzo con Hungry Hearts ad affidargli un ruolo che gli ha aperto molte porte, un biglietto da visita valido per tanto tempo a venire) è Paterson, autista di autobus a Paterson, New Jersey; conduce la sua vita routinaria ma, dopo tutto, felice, svegliandosi al mattino sempre in un orario compreso fra le 6.10 e le 6.30, dà un bacio candido sulla spalla o sulla guancia color ambra della sua fidanzata di origini iraniane, appassionata di decorazione d’interni in bianco e nero e provetta cuoca di pancake, tutto sotto lo sguardo vigile di un esuberante bulldog di nome Marvin; Paterson va a lavoro, senza cellulare, senza iPod, iPad, iQualunquecosa, ma solo con una cassettina per la merenda, molto old style, e un quaderno, su cui scrive delle poesie ispirate al suo idolo, un figlio celebre della stessa città, William Carlos Williams (o Carlos William Carlos, come piace dire a Laura per prenderlo in giro, con tutta la tenerezza del mondo), poeta del quotidiano, un Hopper su carta, si potrebbe osare dire; Paterson, parimenti, ma senza pretese di emulazione, scrive di fiammiferi, di spostamenti di molecole nell’aria, cerca e trova la poesia in ogni piega, in ogni piccolezza, nobilita l’insignificante, ma non si prende sul serio neanche un po’: le sue poesie sono degli oggetti piccoli, fragili, da amare quando si trovano ma che poi chiedono di essere dimenticate. Di stare nel loro carnet segreto. Paterson le scrive seduto in autobus prima di cominciare la corsa, le scrive guardando una cascata, unico locus amoenus della città.
Torna a casa, prende la posta, aggiusta la cassetta delle lettere, che ogni giorno non sta mai dove dovrebbe stare, cena, porta il cane fuori, va al bar, incontra gli amici, assiste a piccole variazioni dell’ordinario, fa incontri fugaci con gente che, come lui, fa poesia in strada, addirittura in una laundry a gettoni, ma poi il giorno dopo ricomincia tutto, e la notte trascorre nel tempo di una dissolvenza a nero, da un primo piano o da un bicchiere. Sembrerebbe impossibile tirare fuori un film, così lieve ma al contempo con immagini così piene della loro stessa essenza, da una non-storia come quella di Paterson. E sembrerebbe ancor più impossibile farne poesia.
Ci è riuscito Jarmusch, fra perdite, nuovi incontri e nuovi blocknotes segreti: “Il film vuole essere un antidoto all’oscurità e alla pesantezza dei film drammatici e d’azione”. È riuscito nell’intento con magistrale piglio d’autore, uno dei più grandi del cinema contemporaneo. E speriamo vivamente che questo modo di fare cinema, di pensarlo, possa avere seguito, possa fare scuola.
Elio Di Pace