“I think an artist is always working with limits,
but these limits are extended and discovered.
There’s an art of discovering new limits”
Robert Smithson
Dai tempi in cui degli operai uscivano da un cancello, il cinema ha sempre cercato di (ri)definire il tempo del lavoro nello spazio di una fabbrica. L’ultimo splendido tentativo di questa definizione spetta a Kevin Jerome Everson, che nel suo monumentale Park Lanes segue per otto ore un’intera giornata di lavoro nella sua città natale a Mansfield, Ohio. Un’opera legata strutturalmente alla condizione del lavoro, alla pazienza e alla realizzazione. È stato una settimana all’interno della fabbrica, Everson, e ha montato una giornata esatta, con i suoi ritmi quotidiani: dall’ingresso, passando per la pausa pranzo fino all’uscita. Un mo(vi)mento continuo di uomini e reparti in cui la smaterializzazione è sempre più vicina, fino a disegnare solo più i contorni degli operai e soffermarsi più sulla macchina stessa del lavoro, fatta oramai più di macchine che di persone.
La prima impressione, già durante la visione torrenziale di quest’opera, torna allo stesso Marx quando si riferiva alla divisione del lavoro che porta all’alienazione sistematica. Proprio qui si innesca il primo meccanismo/rapporto tra attore ed osservatore, con la sensazione che la propria forza lavoro stia al di fuori, proprio come se l’atto di vedere già appartenesse a qualcosa di altro. Loro, gli operai, nella reiterazione continua della loro azione sono inconsapevoli del meccanismo di produzione che sta al di sopra del proprio lavoro; proprio come noi spettatori, che ci concentriamo sulla parzializzazione dell’immagine che andiamo a guardare, senza aver idea dell’atto meccanico e della produzione che avviene all’interno della fabbrica. La fabbrica stessa è la penombra simbolica della sussistenza, così come la sala vissuta per otto ore in simbiosi con i lavoratori è il luogo di alienazione comunicativa di chi sta lì, a guardare. Everson cerca costantemente questa immedesimazione, non alterando né interferendo in nessun modo sulla rappresentazione. Il film lavora sul rapporto tra rappresentazione ed esperienza, definendo una straordinaria equivalenza che non ha nulla a che fare con l’aspetto installativo di opere del genere: è un film che va visto, fruito e vissuto assolutamente in sala.
Opera alla base del programma 24/7 del Festival di Rotterdam, uno spazio originalissimo e molto interessante che si concentrerà su come la tecnologia e la contemporaneità stiano combinando la nostra esperienza e percezione del reale in un tempo che noi non possiamo comprendere. Interessantissima è stata l’idea opposta ma contingente con quella di Everson, ovvero spostare il cinema al di fuori da esso, proiettando i programmi in hall o camera d’albergo, vetrine o sale d’attesa. Una selezione speculare a questo Park Lanes, che cerca di scavare ed indagare continuamente l’accezione ad un’immagine in costante conflitto ad un’idea di durata precostituita. E’ impossibile pensare di indagare il mondo senza lavorare sull’immagine, questo pare oramai essere chiaro; se il novecento è stato il secolo del cinema, questo sarà quello dell’immagina altra, esterna, impossibile ed indecifrabile. Allo stesso tempo, però, gli operai ancora sono in fabbrica, e l’unico modo per capire dove stiamo andando è ancora quello di filmarli mentre escono, in quel fotogramma liberatorio dell’uscita, della ricreazione, del cinema come gioco (anche se terribilmente serio).
Erik Negro