ORO VERDE – C’ERA UNA VOLTA IN COLOMBIA (2018), di Cristina Gallego e Ciro Guerra
Avevamo lasciato il cinema mesmerico e profondamente antropologico di Ciro Guerra nella giungla amazzonica di El abrazo de la serpiente, nelle sacre erbe medicali da cercare e raccogliere come fondamentali ingredienti degli unguenti e nell’incontro fra sciamani e scienziati di più generazioni. Lo ritroviamo, questa volta con la co-regia di Cristina Gallego esordiente dietro alla macchina da presa dopo oltre una decina di film realizzati come produttrice, nel deserto della sua Colombia, quel deserto di villaggi e di famiglie, di culture e di riti antichissimi, di etnie e di talismani, ma anche quel deserto che, fra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, ha visto crescere e fiorire il narcotraffico fra ascese e declini, denaro e massacri, violenza e morte. E che proprio nella violenza e nella cupidigia, nella sete di potere e nelle prepotenze di chi lo detiene, nell’arroganza di chi non chiede scusa e nelle vendette più o meno trasversali di chi è stato offeso, ha visto scialacquare dai popoli che lo abitavano tutta la sapienza e l’umanità dei loro antenati, tradendo e perdendo le proprie radici, la propria memoria e la propria dignità. Tanto che, quando la tragedia delineata dalla parabola di Pájaros de Verano – in uscita in Italia con il (discutibile) titolo Oro Verde – C’era una volta in Colombia, giungerà all’inevitabile epilogo, a impastare la terra polverosa con il loro ultimo rivolo di sangue saranno uomini in sostanza già morti, già distrutti in vita dalla propria stessa sete di denaro e di potere, già disumanizzati nel corso degli anni dal loro progressivo declino morale, e ora spazzati via da un circolo vizioso di violenza e ferocia che per 12 lunghi anni, come in una spirale di crescente imbarbarimento e di sangue che genera altro sangue, hanno contribuito ad alimentare.
È ancora una volta l’antropologia il punto di partenza di Ciro Guerra, e sarà ancora una volta la forma cinematografica quello di arrivo. Pájaros de Verano sono le preghiere e le nenie della più antica tradizione wayuu, è quella lingua autoctona ormai in via d’estinzione che si alterna allo spagnolo nei dialoghi, è il rapporto degli uomini con la terra in cui sono nati e cresciuti, sono gli animali macellati al sole e le amache tese fra i pali dei gazebo che costituiscono il villaggio, sono gli spiriti più antichi che si rincorrono persino nelle trattative matrimoniali fra i padri dei giovani, è lo scorrere delle generazioni dalle nonne ai nipoti, sono le regole interne di una comunità che progressivamente si sfilaccia tradendole una per una, e soprattutto è una danza di (non) accoppiamento, alla ricerca di un contatto impossibile di chi insegue dispotico e nella fuga di chi si ritrae, con la quale il giovane e prepotente Leonidas inizia a mettere la firma su quella rapida rovina e sulla tragica condanna a morte di tutta la famiglia. Ma, come si diceva, Pájaros de Verano/Oro Verde è anche e forse soprattutto, nelle sue forme riflessive e nei cinque atti, o meglio «canti», che compongono in blocchi temporali e tematici la sua tragedia innestata nell’arco che va dal 1968 dei primi carichi di marijuana fino al 1980 dell’inevitabile massacro, un ben preciso lavoro sulle forme del cinema (non solo) di genere, teso a racchiudere e a cristallizzare in un unico corpo filmico – paradossalmente così lontano nella sua riflessività episodica e nei suoi radicali cambi di atmosfera sia dai ritmi tipici del cinema popolare sia dai Narcos di Netflix a cui in troppi frettolosamente lo hanno assimilato additandolo come una sorta di declinazione autoriale – un qualcosa che sia un’epopea gangster di ascesa e declino fatta di “Padrini” e sottoposti, e al contempo un western di stalli alla messicana, di primi piani e di campi lunghi, che non può che richiamare subito alla memoria i gialli accesi e gli sguardi nel silenzio di Sergio Leone. Fino a quando, come i suoi personaggi, il film muta progressivamente pelle e sguardo, prendendo prima le forme di un noir di corpi riversi a terra nella notte che entrano in campo all’improvviso illuminati dai fari del camera car, poi quelle di un action di coiti interrotti e di gerarchie da preservare con il piombo, e infine quelle di un sostanziale thriller di figli delinquenti reclusi e rapiti dai clan rivali, in attesa della venuta di quel vendicatore che (non) metterà fine a tutto, perché non basta sterminare una famiglia, granello di sabbia in un tornado, per fermare un sistema di putrescenza, perdita dei valori e degrado morale. Nella natura in un certo senso duplice delle ambizioni di Pájaros de Verano, è proprio in questo tipo di lavoro tecnico e teorico che il film, ben al di là della ricostruzione storica e culturale dalla quale far scaturire il dramma sociale e anticapitalista (che, va detto, per quanto ipnotico e indubbiamente condivisibile dal punto di vista politico a tratti finisce per risultare ridondante, un filino retorico e un po’ troppo ripetitivo nei suoi dialoghi che inevitabilmente girano sempre intorno alle stesse decisioni e alle stesse motivazioni, legate al disfacimento crescente delle regole morali di una comunità inconsapevolmente suicida nello svendersi per inseguire le sirene e i calcoli giocoforza egoistici del capitale), trova le sue più acute e affascinanti intuizioni visive e poetiche, fra i colori dei paesaggi al tramonto e le danze in cerchio, fra le figure nel sangue che emergono dal buio e il dolore di chi accetta il proprio destino, fino alle Pietà michelangiolesche di una madre di fronte al sudario che contiene l’unico figlio.
È il capitalismo l’unico vero colpevole del dramma di sole vittime/carnefici di Pájaros de Verano, proiettato sul gigantesco schermo che campeggia in Piazza Grande a Locarno dopo la primissima cannense all’ultima Quinzaine. Quel capitalismo che, nel ’68, nel massimo ribollire del conflitto armato colombiano, pagava 50 o 60 dollari per un chilo di marijuana contro i 12 o 13 di un chilo di caffé, quel capitalismo fricchettone dei Peace Corps statunitensi interessati ben più alla ganja e alla propaganda anticomunista che alle necessità dei popoli ancora in via di sviluppo, quel capitalismo del denaro facile, dell’automobile sempre più grossa, dei colpi di pistola sparati in aria, della mazzetta da allungare al posto di blocco mentre passa il carico di droga o di armi. Il baratto diventa commercio sempre più illegale e immorale, il caffè diventa un fucile, e parlare diventa sparare. Mentre l’amicizia più fraterna, forse inevitabilmente, diventa tradimento e morte, perché nessuno, tanto meno in una società che vede il denaro come stravolgimento di secoli di famiglie e tradizioni, di gerarchie e di rispetto, di riunioni e di accordi di compromesso nel tentativo ormai inutile di salvare qualcosa ne progressivo distorcersi del concetto stesso di onore, può sfuggire alla spirale di violenza e degrado messa in scena da Guerra e Gallego. Non possono sfuggirle né l’antieroe Rapayet né tanto meno suo figlio Leonidas, cresciuto fra gli agi e la prepotenza delinquenziale e teppistica dell’arricchito, né il (non più sufficientemente) fedele Moses (reo di aver pubblicamente disubbidito a chi sta sopra di lui) né le donne, né gli anziani del villaggio né tanto meno quelli dei villaggi vicini, che ben presto diventeranno concorrenza, altri cartelli, e quindi nemici. Perché non sono solo gli individui a scegliere deliberatamente di perdere l’innocenza ancestrale per entrare nella spirale della mala e del narcotraffico, ma è l’intera comunità wayuu a farlo, rinunciando progressivamente ai propri riti tradizionali e ai vecchi talismani, alle riesumazioni dei morti per riportare sulla terra le anime dei defunti e alle (s)vestizioni delle vergini in età da marito, per scegliere il frusciare del dollaro, l’opulenza, il rispetto acquisito instillando paura. Come se fosse una sorta di suicidio collettivo culturale pilotato dalle seduzioni dell’occidente e del nord, con la Colombia degli anni ’70-’80 alla stregua di una zanzara inevitabilmente attratta verso quel neon blu elettrificato nel quale non potrà che trovare la morte.
Nulla ha più valore nel momento in cui si perdono i valori, né i canti, né le preghiere, né i riti funebri. Conta solo sentirsi intoccabili, offendere e non chiedere mai scusa, sfidare apertamente i rivali per mostrarsi più forti, brutali, animaleschi, inumani. Sadici, come quando, per il solo gusto di calpestare una dignità e affermare così la propria forza, la nuova generazione incarnata da Leonidas non troverà nulla di meglio da fare di umiliare il proletario che ha di fronte regalandogli i soldi necessari allo studio solo dopo averlo pubblicamente costretto a mangiare una merda di cane. È di nuovo il 1979, il momento di massimo potere dopo un’ascesa criminale iniziata 12 anni prima, lo stesso momento in cui Pájaros de Verano si apriva in medias res sulla comunità e sul colore locale con una messa in scena folgorante fatta di audaci virtuosismi visivi e di un «Tu sarai mia» che preannunciava sin da subito l’ineluttabilità della tragedia, e in cui il film di Guerra-Gallego, dopo il titolo e il lungo primo capitolo di excursus in quel ’68 in cui tutto per Rapayet era iniziato quasi per caso, torna verso la sua metà, quando ormai la miccia della catastrofe è già stata accesa e, dalla «prosperità» al «limbo», saranno pochi i mesi di progressiva caduta rimasti prima di doversi arrendere alla fine di tutto. Negli anni, a furia di «godersi i soldi» ostentando opulenza un po’ come in una rivisitazione (a)tossica di The wolf of wall street fra scalate sociali e auto veloci con cui festeggiare una nuova nascita, i ritmi produttivi del cartello gestito da Rapayet si sono moltiplicati così come si sono moltiplicati gli aeroplani statunitensi che si presentano nel deserto per gli scambi, i lussi sono diventati bisogni, e ai sacchi di marijuana in cambio di denaro si sono affiancate le casse di armi, perché con l’aumentare di soldi e potere non è possibile evitare che cresca anche l’orrore che si portano dietro. L’onore della famiglia/clan/etnia/cartello di Rapayet, già “salvato” con le pallottole e con il sangue dei (non) sentimenti, porterà a vendette sempre più trasversali, a stragi di innocenti, a rapimenti, a tradimenti obbligati dalle canne dei fucili puntati in cerchio contro chi è indifeso, mentre la polizia sarà ben felice di dividersi le banconote dopo essersi “distratta” in una guerra internazionale dei governi ai cartelli della droga che, a differenza di quella civile da tempo e ancora in corso nella quale i cartelli della droga sono sempre stati vera e propria forza in campo, era ancora di là da iniziare. In questo contesto di generazioni che scorrono nella violenza capitalistica del mercato più nero, Ciro Guerra e Cristina Gallego innestano il proprio cinema di antropologia socioculturale e di dignità umana, in un lavoro tanto sorprendente e acuto sulle forme cinematografiche quanto, alla lunga e come già anticipato, un po’ scolastico nell’accatastare esempi di contenuti culturali e prevedibile nell’arco della sua tragedia, non sempre forte della stessa potenza nel mettere in scena l’essenza più intima di un popolo ferito e in più occasioni ripetitivo nello scorrere di dialoghi sempre uguali nel loro essere sempre diversi. Ma, anche nei piccoli e grandi limiti di un film probabilmente troppo lungo nel suo trascinare per 125 minuti ciò che era in sostanza già chiaro sin dal prologo che anticipa il titolo e i cinque capitoli, sarebbe folle, più ancora che ingeneroso, negarne le ambizioni e gli spunti di interesse, la perizia tecnica e la vis significativa di ogni singola inquadratura, e ancor di più lo straordinariamente sapido lavoro che i registi hanno compiuto sui generi. Perché per quanto Pájaros de Verano possa risultare a tratti “noioso”, nel suo progressivo e concentrico chiudere gli orizzonti nell’avidità e nei tradimenti culturali, nelle sue incursioni nelle diverse forme cinematografiche e nelle sue non poche intuizioni poetiche nel mettere in scena una guerra fratricida, un canto di onore e di avidità e un urticante e dolente guardare indietro come unico modo per andare avanti, sa fare emergere uno sguardo prezioso e accorato, opposto a quello con cui il protagonista Rapayet, ormai conscio che la morte del suo corpo nient’altro è che il seguito naturale di quella della sua anima, guarda al suo assassino senza più nemmeno provare a fermarlo. È lo sguardo di chi non si arrende, quello di Guerra-Gallego, è lo sguardo di chi non si rassegna, è lo sguardo di chi ancora crede nella possibilità, attraverso la storia e la cultura, di recuperare l’uomo e la sua dignità. È quello sguardo che ogni volta, quando si appoggiano gli occhi su uno schermo, si spera di trovare. E questo non è certo poco.
Marco Romagna