Recitar! Mentre preso dal delirio,
non so più quel che dico,
e quel che faccio!
Eppur è d’uopo, sforzati!
Bah! sei tu forse un uom?
Tu se’ Pagliaccio!
Vesti la giubba,
e la faccia infarina.
La gente paga, e rider vuole qua.
E se Arlecchin t’invola Colombina,
ridi, Pagliaccio, e ognun applaudirà!
Tramuta in lazzi lo spasmo ed il pianto
in una smorfia il singhiozzo e ‘l dolor
Ah, ridi, Pagliaccio,
sul tuo amore infranto!
Ridi del duol, che t’avvelena il cor!Ruggero Leoncavallo, Vesti la giubba, tratto dall’opera Pagliacci
Che per Marco Bellocchio il 2016 fosse un’annata di grazia lo si era già ampiamente intuito a Cannes, quando la Quinzaine des Realisateurs aveva presentato il magnifico – e inspiegabilmente ancora inedito in Italia – Fai bei sogni, rielaborazione dell’autobiografia di Massimo Gramellini usata per denunciare la mediocrità al potere, o quantomeno sotto i riflettori, e fare parallelamente riscoprire a Bellocchio quell’umanità bruciante dei tempi migliori che da troppi anni latitava nella sua comunque (quasi) sempre rispettabile filmografia. Ma per approcciarsi a Pagliacci, cortometraggio presentato a Venezia in apertura speciale della 31ma Settimana Internazionale della Critica – la prima sotto la direzione di Giona Nazzaro, coadiuvato nella selezione da Massimo Tria, Beatrice Fiorentino, Luigi Abiusi e Alberto Anile, la prima con annessa mini-sezione di corti italiani –, occorre un piccolo passo indietro, una contestualizzazione del film nella produzione e nelle attività di Marco Bellocchio. Da diversi anni a questa parte, infatti, il regista piacentino tiene nella nativa Bobbio, in una sorta di splendida ‘gestione familiare’ del mezzo cinema insieme al fedele figlio Piergiorgio, il laboratorio Farecinema, scuola di scrittura, regia e recitazione dalla quale escono regolarmente cortometraggi di fine anno. Non tutti degni di nota, va detto, anzi a nostra memoria quasi nessuno, ma era evidentemente solo questione di tempo perché da questo esperimento in continuo divenire giungesse la piccola perla. Con Pagliacci, in appena diciotto minuti, Bellocchio torna alle ossessioni primordiali del proprio cinema: la famiglia, il matriarcato asfissiante, i tradimenti, la viscida natura della borghesia, la complessità nei rapporti, l’opera lirica. Sono I pugni in tasca, che ritornano cinquantuno anni dopo a bussare alla porta e ancora pensano al matricidio, nello stridore meccanico di un grilletto tirato a vuoto.
Ridi pagliaccio, sul tuo amore infranto, ridi del duol, che t’avvelena il cor! L’apertura è sulla celebre aria di Ruggero Leoncavallo, sono le prove dello spettacolo, il figlio sul palcoscenico, la ricca madre-arpia che guarda attenta e sospettosa. Ha accettato di finanziare la messa in scena, ma per una cifra inferiore a quella necessaria: non si fida del figlio cantante, non vuole che sperperi i suoi averi, “Sono la più comunista di tutti: chi lavora ha il pane, chi non lavora, ciccia!”. La messa in scena e la realtà si commistionano: siamo tutti pagliacci, burattini nelle mani del destino, traditori e traditi, rancorosi e falsi, avari e dissoluti. “Che fai? Siamo fuori scena” mentre il bel canto continua, in una sorta di trance attoriale, anche dietro le quinte. Un bacio proibito, una testa che spunta dalle tende: è quella della sorella, non parlerà! Sembra un intrigo amoroso e di tradimenti della fiducia, quello messo in scena in Pagliacci, e invece il disagio su cui si concentra Bellocchio è molto più profondo, è un rancore pluriennale dei figli verso la madre che esplode in un’apparentemente innocua seduta di ipnosi: Elettra, Oreste, “nostra madre”, la perfidia, la vendetta. Lo stato di trance rompe gli argini, lascia fuoriuscire il veleno per troppi anni incapsulato; la “pagliacciata” viene interrotta, ma i pagliacci rimangono. E se Arlecchin t’invola Colombina, ridi, Pagliaccio, e ognun applaudirà! Tramuta in lazzi lo spasmo ed il pianto, in una smorfia il singhiozzo e ‘l dolor. I personaggi si muovono sul filo dell’esplosione, e se una puntata in una bisca clandestina verrà fermata sull’orlo dell’assegno scoperto, sarà la figura mefistofelica di una madre seduta a fumare circondata dai suoi cani quello che si staglia nel centro del mirino, nel centro del sogno, nel centro del pensiero. Clic. Clic. Clic.
Forte di una fotografia anni luce al di sopra delle medie non solo italiane, firmata da un Daniele Ciprì possibilmente ancor più ispirato del solito, Pagliacci racchiude in meno di venti minuti le prerogative che hanno reso grande Marco Bellocchio, quella sensibilità unica nel riuscire a smuovere le coscienze per scoprire gli anfratti più oscuri dell’animo umano, quell’ossessione per la figura materna atroce e mefitica, quella voglia al contempo agghiacciante e legittima di superare Edipo. Bellocchio indaga la famiglia, indaga l’oppressione, indaga la frustrazione, mettendo in scena anche la fallibilità umana, le ambiguità familiari e sociali, l’effettiva insostenibilità di una madre avara di denaro ed affetto e l’effettiva inadeguatezza di figli forse mai cresciuti per davvero. Mai giudicando, ma sempre mettendosi a fianco dei suoi personaggi, Marco Bellocchio mette in scena e vive le più ancestrali emozioni, capendo intimamente le ragioni contrastanti e contrastate che muovono ogni scelta dei personaggi. Pagliacci è il ritorno alle origini, il ritorno (eterno) a Bobbio, il ritorno allo scomodo ventre materno. E se ne I pugni in tasca era l’epilessia il fattore scatenante del dramma, in questo mondo di Pagliacci non serve nemmeno una reale malattia, perché il morbo è al di fuori di noi e dentro tutti noi: siamo noi, la nostra volontà di affermarci, la nostra anaffettività dissimulata, la nostra avarizia, i nostri tradimenti. Anche e soprattutto in famiglia. Perché, in fondo, è d’uopo, sforzati! Bah! sei tu forse un uom? Tu se’ Pagliaccio!
Marco Romagna