È difficile, impossibile, dire i perché del cinema, i modi in cui andrebbe fatto, le finalità che dovrebbe porsi come arte, e questo è chiaro a chiunque conosca la storia del mezzo della settima arte. Ogni spettatore (e ogni artista) ha i suoi bisogni, più o meno astratti, che legano chi dell’opera fruisce (o chi l’opera la fa) all’opera stessa; i parametri con cui tali scelte si declinano cambiano da individuo a individuo e probabilmente tutte le accese discussioni che si fanno in ambito cinematografico e festivaliero partono non solo da discrepanze qualitative ma soprattutto da malintesi di tipo umano, oscillazioni del gusto che sono strettamente legate a come le persone sono fatte, dentro, davvero. Meno difficile è capire cosa il cinema non dovrebbe fare; chiunque direbbe che un film non dovrebbe ripetersi, o al massimo dovrebbe reiterare stilemi e simboli in modo che la visione non si dimostri come una sostanziale perdita di tempo. E un film non dovrebbe essere elitario, e se lo è dovrebbe porsi come tale a partire dalla sua fruizione. Ma soprattutto il film, quando c’è effettivamente una storia, non dovrebbe restituire una narrazione superficiale che potrebbe esistere anche senza l’uso di suono e immagine, perché in tale eventualità, nella maggior parte dei casi, il mezzo letterario decisamente si addice di più, e la sensazione finale è quella di aver assistito a uno spreco di soldi asservito a una logica d’intrattenimento. C’è chi direbbe anche che i film non devono essere noiosi, ma molti discorderebbero, in quest’epoca in cui il cinema d’autore ha dimenticato la dimensione del gioco e molti autori per essere presi sul serio usano la lentezza e la dilatazione dei tempi di montaggio, a volte senza cognizione di causa. In questa riflessione, Padrenostro rientra nell’ambiguità, che dimostra come non sempre la verità sia palese: sì, è un film che reitera i soliti stereotipi del cinema italiano, dalla musica popolare (da De Gregori alla Premiata Forneria Marconi fino a Pippo non lo sa di Rita Pavone) ai litigi urlati in famiglia, dalle sbronze in campagna (reminescenti di Novecento ma senza masturbazioni bucoliche) alla rilettura di superficie della nostra Storia. E sì, ha una sua dimensione elitaria, forse involontaria, e mancano molti punti chiave di cosa rende un film realmente valido, ma è più difficile capire e approfondire perché Noce inciampa in questa direzione. Padrenostro non è mai noioso, è solo vago, e spesso ottuso, viaggia sull’onda di una propria logica che al di fuori di questa storia non avrebbe senso, ma non è mai sicuro della direzione da prendere. O forse la dimensione che c’era sulla carta è stata traviata dallo schermo. Ma perché, nello specifico, c’è l’impressione, pressoché condivisa da chiunque ne parli sul Lido o quasi, che sia tutto così sbagliato?
Innanzitutto c’è il solito discorso che vede il cinema italiano in decadenza. È vero, anche se forse è più vero altrove (come in Francia); più che altro il drastico tracollo del nostro cinema concerne le opere dall’alto valore commerciale, al di fuori di quei pochi autori che risultano delle quasi-certezze del botteghino, perché l’ambiente del cinema e dell’audiovisivo indipendente è molto vivido, per quanto il suo successo di fronte agli occhi del pubblico sia ancora, invece, tutt’altro che identificato internazionalmente. Non vogliamo porre una distanza qualitativa tra le due categorie, anche perché spesso un lavoro commerciale nel nostro paese (come la serie de L’amica geniale o gli ultimi lavori di Sorrentino sia al cinema che in TV) può essere più interessante di un prodotto altrimenti diffuso con l’etichetta dell’opera rivoluzionaria e intellettuale (come purtroppo Favolacce). Il nome e il volto di Pierfrancesco Favino, più di qualsiasi altra cosa di Padrenostro, sanciscono il film di Noce come un film da pubblico, da emozione condivisa e universale e probabilmente più da Sky che da sala cinematografica, ma la missione dell’opera è invero totalmente autoriale. Noce sente ed esplicita il bisogno di esorcizzare il suo passato, l’aver vissuto, da piccolissimo, a un anno d’età, il trauma del vedere suo padre, Alfonso Noce, direttore responsabile del nucleo laziale dell’antiterrorismo, vittima di una sparatoria da parte dell’organizzazione di estrema sinistra Nuclei Armati Proletari. Dov’è la colpa, qual è la verità? Il padre del regista è sopravvissuto all’attacco, e così il personaggio di Favino, sua controparte sullo schermo: l’interesse del regista concerne prevalentemente le conseguenze dirette dell’evento, che ha la sua importanza su grande scala nel macrocosmo-Italia, anche se l’intreccio invece si concentra sul microcosmo della famiglia Noce, e soprattutto su Valerio, alter-ego del regista da bambino, che diversamente rispetto alla realtà si trova a essere testimone cosciente della sparatoria a causa del cambio in sceneggiatura della sua età: Valerio non ha un anno, ma 10. Dall’evento scatenante costituito dalla scena d’azione sullo scontro tra Favino e i terroristi proletari, vista dal punto di vista sfuggente del bambino che non capisce gli eventi (nell’unico momento di regia che crea effettivamente stupore in tutto il lungometraggio), si dirama un dramma psicologico che va in molte direzioni contemporaneamente – il filone che le riunisce tutte è quello delle carenze affettive di Valerio. La madre non gli basta, perché “non è il papà”, ma anche il papà ha una sua lampante enigmaticità, pressoché inesplorata se non all’interno del punto di vista infantile, che però non ha gli strumenti intellettivi per comprendere gli eventi. Esorcizzare un dramma personale che diventa politico (o forse un dramma politico che diventa personale) prendendo una posizione che non è una posizione già pone lo spettatore in un ruolo a dir poco parziale – il fatto che Noce tradisca la propria stessa visione rimettendo in scena la sparatoria con più punti di vista solo per creare enfasi non aiuta affatto e anzi rovina la messa in scena intelligente della stessa scena all’inizio.
Oltre a mettere in discussione il rapporto tra Noce padre e Noce figlio, Padrenostro vuole anche essere un racconto idilliaco di amicizia e di formazione. Valerio, nel momento di maggior dispersione del suo percorso personale di accettazione della realtà, incontra Christian, un adolescente orfano e senzatetto, che fuma, gioca meglio a calcio, guida meglio la bici, e diventa un compagno fraterno oltre che un mentore della goliardia, della vita vera o della sua apparenza. Il gioco è palese, e tornano i simbolismi che Novecento ha reso lapalissiani e iconici nella nostra memoria: la più o meno deliberata complicità dell’infanzia, che prescinde dai limiti di classe, dalla dicotomia padrone-operaio, ricco-povero, ma anche l’inevitabilità del doversi confrontare col proprio ruolo nel grande schema (laico) delle cose. Ma Noce, e con lui Valerio, non ce la fa a raccontare il superamento dei confini o l’umanità del gesto, perché si adagia sugli allori di questa ripetitività del racconto umano, non c’è un pathos pastorale, evocato ma inefficace, bensì la messinscena e la sceneggiatura rimangono sempre nell’area grigia della sottile separazione tra i due protagonisti e le realtà che rappresentano. Noce prova a raccontarsi con sogni, allucinazioni, desideri, Valerio che sogna Christian e Christian che appare sfuggente, come un amico immaginario, i due che si incontrano da grandi e riscoprono troppo tardi la loro amicizia marchiata con un sigillo di sangue, dimenticata tra le rughe del tempo, di cui non sentiamo il peso. Ma non sono personaggi, sono corpi e volti piatti, emblemi rappresentativi di un’allegoria effimera, che non ha carne o solidità. Anche il colpo di scena finale, che vede Christian come figlio degli attentatori alla ricerca di una catarsi e il padre di Valerio come una persona che ha bisogno di crescere e superare la fragilità quanto suo figlio, sembra solo confermare la disattenzione della scrittura, che in altre occasioni avanza tramite un’aneddotica abbastanza idiota – per esempio quando il piccolo protagonista viene abbandonato dai genitori sulla spiaggia a dormire senza nessuno che lo riaccompagni, o quando palleggia con una palla firmata dall’ex-capitano della Lazio Giorgio Chinaglia, che qualsiasi tifoso ingabbierebbe in una teca di cristallo.
Ma, se volessimo riassumere, Padrenostro, che è assurdamente in concorso a Venezia 77 in quest’anno difficile e strano, non sembra sbagliato per la sua prospettiva univoca ed elitaria, per la sua ripetitività o per la sua piattezza visiva che non restituisce lae presunte necessità del cinema; Padrenostro principalmente non funziona perché ha un titolo che evoca la preghiera ma preferisce la strada della didascalia, rischiando di sfiorare l’omoerotismo incestuoso probabilmente senza neanche volerlo, e senza dimostrare una conoscenza degli eventi che possa esplicitare l’occorrenza di suddetta didascalia. Noce non ha fatto un’opera sacra e/o universale, per quanto abbia tentato di raccontare l’emozione pura, anzi: sembra che la corruzione degli eventi data dalla Storia, esattamente ciò che il film vuole esorcizzare, abbia drasticamente e irrevocabilmente distrutto la possibilità di un respiro umano reale, di un’immedesimazione, di una sublimazione che possa rendere questo punto di vista effettivamente unico o interessante. Il cinema, forse, esiste anche per questo, ovvero per essere, per qualcuno, la strada sbagliata. E da qui in poi si può solo imparare, senza perdere il desiderio di raccontare qualcosa che, in realtà, può valere la pena di essere raccontato. Imparare a vedere, a raccontare, e a raccontarsi.
Nicola Settis