È uno dei film più intimamente rosselliniani degli ultimi 50 anni, il Padre Pio di Abel Ferrara. Fra la Fede dolente di Francesco giullare di Dio e gli eccidi che quasi sembrano citare esplicitamente Roma città aperta, fra il misticismo degli Atti degli apostoli e la lotta politica per la sopravvivenza di Paisà. Un film che mette in scena la figura di un giovane Padre Pio appena giunto dalla sua Pietralcina al monastero di San Giovanni Rotondo in un periodo di crisi spirituali e personali controversie, ma che progressivamente sceglie di concentrarsi piuttosto sul contemporaneo Biennio Rosso in cui il popolo intorno al monastero, di ritorno dai massacri della Prima Guerra Mondiale, per la prima volta si ribella, insorge, vota, vince, e proprio al momento di insidiarsi in Municipio viene immancabilmente represso nel sangue dalle forze dell’ordine latifondiste e protofasciste del 1920. Un doppio percorso narrativo con cui unire un frate e una comunità in una sofferenza tanto personale quanto collettiva, tanto familiare quanto politica, tanto religiosa quanto sociale. Del resto, nel cinema (ma a ben vedere anche nella vita ormai “ripulita”) di Abel Ferrara, il tormento è sempre stato l’unica via per la redenzione, e la salvezza non può che passare attraverso l’espiazione più dolorosa. Da Bad Liutenant a The addiction, da Welcome to New York a Tommaso, da 4:44 – The last day on Earth a Pasolini, che dopo essere stato corpo che anche nella morte riesce a continuare a creare arte non solo cinematografica, ora sembra in qualche modo riecheggiare tanto in una spiritualità politica da qualche parte fra Il Vangelo secondo Matteo e Uccellacci e Uccellini quanto nel rigore del montaggio alternato con cui, proprio come in Porcile, si intrecciano e vicendevolmente si stratificano i due filoni dentro e fuori dal monastero. Da una parte il frate venerato già in vita e che verrà acclamato santo subito dopo la morte, interpretato non certo per caso da uno Shia LaBeauf realmente impegnato in un percorso di forte avvicinamento alla religione dopo la vita sregolata (e i ripetuti arresti per qualsivoglia reato) degli ultimi anni, e dall’altra una collettività che immancabilmente si divide in chi è pronto a lottare e chi invece si lega ai padroni per reprimere gli altri. Non è certo un caso in tal senso che, nella prima visita demoniaca a Padre Pio, la visione maligna contesti al giovane religioso di aver evitato tramite conoscenze la leva militare e il conflitto sul Carso, come ad accusarlo di non voler combattere nemmeno la guerra sociale in corso, in parallelo fra le sue battaglie di Fede contro le tentazioni del maligno e le ripetute angherie subite dai contadini socialisti stanchi di coltivare le terre dei signori, sempre più poveri e incerti ma ormai politicamente consapevoli, e proprio così pericolosi per una società retriva e classista secondo cui «nemmeno esistono, non sono nulla». È così che la biografia cede il passo a una narrazione corale, fatta di volti “veri” di paese, di reali frati e di pronunce in un inglese spesso esitante che in qualche modo stratificano ulteriormente il patimento del popolo pugliese, canalizzandolo un dolore più grande e condiviso che è tormento dell’intero mondo, di chiunque subisca ingiustizie economiche sociali, di chiunque soffra un’agonia esistenziale. Ma anche di chiunque abbia il coraggio di trovare un modo e una lingua comune, qualunque essa sia, per comunicare, unirsi, ribellarsi. Far dialogare Dio e Marx.
Andava avanti da anni il progetto del fervente buddhista Ferrara sul frate cattolico di Pietralcina, vicina a quella Sarno dalla quale i nonni del regista emigrarono a New York. Andava avanti per lo meno da quel documentario Searching for Padre Pio con cui, già nel 2015, il regista newyorchese e il co-sceneggiatore Maurizio Braucci si erano messi alla ricerca di ogni possibile documento attraverso il quale attenersi il più possibile ai fatti storici, senza paura di scavare nelle ambiguità di un uomo solitario e dal carattere difficile, sofferente fra le stigmate e le crisi di Fede, da sempre venerato da molti e al contempo osteggiato, quando non esplicitamente accusato di manipolazione, da tutti gli altri. Padre Pio, presentato alle Giornate degli Autori di Venezia 2022 e di gran lunga fra i principali colpi al cuore della Mostra, ne è per molti versi uno straordinario controcampo, che con l’ormai consueta, personalissima e irresistibilmente seducente regia ferrariana di luci e ombre rimette in scena un momento storico ben preciso nella vita del santo, allargando il più possibile lo sguardo verso la gente comune, verso le microstorie di donne che ancora aspettano il ritorno dei mariti dal fronte e di riunioni carbonare con cui sognare la Rivoluzione, di pavide accettazioni delle arroganze del potere e di opposte reazioni al coltello, di anziani da portare alle elezioni e di morti di fatica sul lavoro in una commovente esplosione blues (magnifiche come sempre le musiche originali del fedelissimo sodale Joe Delia), fino a quei salotti iperborghesi in cui organizzare la violenta e antidemocratica risposta del sistema. Un eccidio, quello del 14 ottobre 1920 con tredici militanti socialisti e un carabiniere rimasti uccisi, del quale venne al tempo falsamente accusato di essere in qualche modo ispiratore e complice lo stesso frate, in un’ipotesi smentita dalla Storia ma diventata nel frattempo una sorta di leggenda popolare che Padre Pio smonta semplicemente ignorandola, non mettendola in scena, preferendo restituire una verità storica il più possibile comprovata da documenti e scritti personali, da lettere e diari, da archivi e registri. Pio ascolta, confessa, elargisce miracoli, e nel frattempo combatte contro i demoni reali e interiori, contro le (insistite) tentazioni della carne, contro la perfida freddezza dell’«uomo alto» interpretato da Asia Argento, contro le ripetute visite del maligno dove lo stile inconfondibile di Ferrara (anche se voci non confermate dicono che una scena sia stata girata dallo stesso LaBeouf) trova i suoi momenti più alti. Proprio come il popolo contadino combatte contro le repressioni, i pestaggi e i soprusi quotidiani in un dolore comune sempre più acuto e proprio per questo sempre più salvifico. Una doppia professione di Fede, religiosa e politica, personale e comune, che non può che rivelarsi una doppia passione, complessa, intricata, tormentata, luttuosa, e proprio per questo così salvifica – «la sofferenza, in comunione con Cristo, porta al Paradiso». Come se un dolore personale potesse in qualche modo racchiudere e alleviare quello collettivo, come se la salvezza di un uomo potesse in qualche modo trascinare alla salvezza l’intera collettività. Del resto, che cos’è un miracolo se non una croce che si svuota, una mano che scende dal cielo, una ferita che si apre sanguinando, una definitiva corrispondenza fra ciò che si crede e ciò che è? O forse, molto più laicamente, il vero miracolo è semplicemente la bellezza abbacinante di questo film.
Marco Romagna