PACIFICTION (2022), di Albert Serra
Un nuovo deserto dei Tartari approda a Cannes in questo 2022 post-covid ma dal sapore ancora (più) pre-apocalittico. È il nuovo film di Albert Serra, che (finalmente) ospitato nel concorso principale con uno dei veri capolavori di questa edizione festivaliera non si porta a casa proprio un bel niente, testimoniando come le più grandi opere passino spesso in sordina a favore di gusti più palatabili per tutti. Nei suoi 165 minuti abbondanti Pacifiction (a cui per l’uscita italiana verrà aggiunto il pleonastico sottotitolo Un mondo sommerso) non è un film facile, come non lo erano i 130 di Liberté (2019), i 115 di La Morte di Luigi XIV (2016) o i 100 de Il canto degli uccelli (2008), di cui mantiene l’atmosfera molle e sonnambulesca ma ora trasportata nel paradiso perduto/bocche dell’inferno della Polinesia Francese. Eppure, anche se non è un film facile, Pacifiction è un film immediato, poiché apertamente diretto nei suoi conati interminabili di parole che rigirano su loro stesse in un cerchio, o forse è una «spirale», a seguire gli analoghi movimenti del personaggio centrale, ma soprattutto poiché completamente immersivo e dunque comprensibile a livello viscerale ancor prima che razionale.
Come premonito dalla prima proiezione di Liberté, anticipata da uno spettacolo teatrale e un’installazione artistica firmate dal regista stesso, con quest’ultimo film Serra raggiunge forse l’apice della sua forma cinematografica e approda finalmente ad un’opera pienamente installativa che altro non è che un viaggio ipnotico e meditativo all’interno dei gironi di una suadente metafora politica. Questa perde i netti confini storici che caratterizzavano le precedenti ispirazioni di Serra, dalla Spagna di Don Chischiotte di Honor De Cavalleria in poi: non c’è più Ancien Regime, non più l’illuminismo, non più il diciassettesimo secolo, ma la geografia vaga della Francia repubblicana e del suo retaggio coloniale, con i suoi lasciti, i suoi rapporti internazionali e le «collettività d’oltremare». Un’opera infine contemporanea, anche se da quando tocca l’umano e le relazioni più in generale si può dire che valga per ogni epoca. Così anche l’ambientazione è senza tempo, dai costumi che sono del nuovo millennio – l’abito bianco panna, i parei colorati, i fiori, le divise della marina – ma che potrebbero adattarsi benissimo anche a cento anni fa, allo sfondo dei tropici di Gauguin in cui il logorio della pioggia e il soffio del vento tra le palme è interrotto solo dal rumore delle moto ad acqua e dal fragore delle onde cavalcate dai surfer che spezzano la dilatazione infinita del tempo, da sempre il vero protagonista delle opere del cineasta – o forse sarebbe meglio dire artista – catalano. Come quello decadente dell’orgia notturna di Liberté, come quello estenuante della morte in azione che rosicchia la gamba in cancrena del Re Sole e come quello rallentato e osmotico del cammino dei magi ne il Canto degli Uccelli, il tempo cessa di avere un senso in Pacifiction, e d’altronde anche la storia. Da sempre un pretesto nelle sue precedenti opere – “storiche” senza esserlo – ora svanisce quasi del tutto. Sono opere “in attesa”, che aspettano accadimenti che talvolta infine accadono, talvolta no. E allora Pacifiction si caratterizza non solo come un Deserto dei Tartari, ma anche come un Aspettando Godot, in cui il dio è il nucleare che (forse) non arriva, un sentore di morte impossibile da zittire, o magari la distruzione del mondo; oltre ad essere una sorta di cinico e distaccato Apocalypse Now, che peraltro ricorda come impronta fotografica. Il protagonista è l’inviato della Repubblica De Roller, interpretato da un magistrale Benoit Magimel, un personaggio a metà tra una versione corrotta e dissacrata del capitano Benjamin Willard che ha già trovato i confini del suo cuore di tenebra e li accetta con sconsolazione e una versione più dimessa di Gabriele D’Annunzio (o più probabilmente dello stesso Albert Serra, che allo stesso modo cerca un senso nel continuo vagare nella finzione…), anche per l’abbigliamento un po’ dandy e il fisico un po’ lasciato andare. In questa metafora del potere che sa di Pacifico, sa di pacificazione, sa di finzione e sa dell’interrogativo generato da tutte queste cose contratte insieme in un titolo, lo spettatore si perde nella spirale in cui si attorciglia De Roller, l’Alto Commissario della Repubblica che amministra la zona, anche se in realtà non c’è assolutamente niente da mandare avanti perché lo Stato, che incarnato in Luigi XIV già moriva lentamente, è qui svanito, inghiottito da una cafard sonnolenta e appiccicosa in cui i personaggi si muovono come grottesche pedine notturne in una scacchiera in cui il re e la regina sono ormai solo più due mozziconi senza forma. È per questo che la narrazione di Serra è completamente lasciata andare e si disintegra, o meglio si scioglie, nel mare degli eventi che di fatto non portano a niente se non al continuo vagare, quasi felliniano, del protagonista. Un consapevole giro a vuoto sull‘impossibilità stessa di agire, mentre De Roller galleggia senza reale potere da un incontro all’altro, con i polinesiani, con i politici locali, con gli americani, con la figura quasi da adepta della donna transgender aspirante assistente e invaghita del castello di carta che De Roller rappresenta, e poi gli incontri con la Marina Francese. Questo costituisce forse l’unico vero appiglio narrativo nel senso più tradizionale del termine, da quando si vocifera di test nucleari come quelli che la Francia fece per davvero nel trentennio precedente al 1996, sia atmosferici che sotterranei, e un gruppo di locali cerca di impedirlo a fronte del protagonista che fa da mediatore, da “pacificatore”.
Ma questa sorta di ipotesi di complotto – raccontata con sublimi toni sardonici («se il nucleare non fosse mai stato fatto» tutti gli orrori che ha provocato non ci sarebbero, «ma è il nucleare che ha dato i soldi per poter guarire le malattie che ha causato») in realtà a sua volta si diluisce nella lenta marea della (non) narrazione, al punto che più che a guidare lo spettatore in una direzione chiara diventa funzionale alla costruzione di una specifica atmosfera di non-senso a tratti lynchiano, profondamente ancorata al nocciolo del film.
Ecco che allora gli interminabili pranzi chiacchieratissimi, le sieste, le notti di pioggia, le attese in macchina, la danza dei polli e l’elogio alla violenza, lo stadio deserto e le surfate delle barche che beccheggiano in attesa dell’onda più alta in una strabordante sequenza che si vorrebbe non finisse mai hanno lo stesso valore di questa sorta di spy-story: le riunioni più o meno segrete di De Roller e della nuova segretaria locale, i deliri patriottici dell’ammiraglio della Marina Francese che è l’unico ancora a credere che in un’ipotesi di potenza ancora possibile, i pedinamenti dei due personaggi misteriosi (in combutta con la Cina? La Russia? Gli Stati Uniti?) che osservano De Roller da un edificio abbandonato in un momento che è cinema allo stato puro ed elevazione dell’immagine ad installazione – ars gratia artis. Serra infatti non è alla ricerca della verità ma del bello, non cerca di elevare il contenuto ma di elevare lo stile affinché questo possa nobilitare il contenuto stesso, come lui stesso afferma. Da qui la sinergia di visione e parola in cui a quest’ultima è affidato il compito di esprimere il caos dadaista e surrealista insieme che domina lo schermo e costruisce non solo il modo migliore per raccontare il nucleo della cosiddetta “arte” del governo, ma il più irresistibile elemento di fascino della sua opera, il (non) senso che si può dare a momenti esemplificativi come i due monologhi del protagonista. Quello con la segretaria polinesiana, che presto diventerà/ebbe «i suoi occhi», la sua spia: «partirò, e sapranno che conduco una vita schifosa, che ho lasciato tutto qui, ma non ho lasciato te (…). Sei tu il predatore, li mangerai tutti… sei il vero carnivoro, un leone, una tigre, ti piace?», e forse ancora di più quello in una macchina ferma di fronte a un passeggero addormentato, in cui non si limita a spiegare che «la politica è come una discoteca», una danza buia con il diavolo, ma porta il discorso all’estremo nella sua costante infinita ripetizione, lo rigira su se stesso (di nuovo, la spirale) fino a che perde di senso e quindi ne acquista nella logica della poetica del film. E come se non bastasse lo rende immagine quando una lunghissima sequenza ci mostra poco dopo la danza del diablo in un locale notturno, dove marina francese, polinesiani, politici, e tutte le pedine più o meno grosse (guidate da chi non si sa) mostrate fino a questo momento si ritrovano per ballare insieme nel culmine del Dada. La chiusura di un arco assolutamente non narrativo, eppure perfettamente compiuto nelle sue astrazioni concettuali dell’irrisolto e dell’irrisolvibile: tutto è illusione, perfino la stessa pace è una finzione. È per questo che il motoscafo della Marina si allontana infine all’orizzonte verso il suo sottomarino («Partiamo, prendete tutto quello che vi serve»). Come un pupazzo grottesco di marinaio, l’Ammiraglio istiga i suoi soldati di mare al sacrificio con un discorso galvanizzante, delirante, napoleonico: «Sono vent’anni che aspettiamo i primi spari. Tutto è preparato. Serve cuore e coraggio. Nessuno vi riconoscerà (…). Forse un giorno riconosceranno la vostra missione, e allora il mondo sarà diverso». Prima che lo schermo venga inghiottito dal nero, Albert Serra cambia forma. La macchina adesso traballa, la luce è cambiata, la grana dell’immagine sembra diversa: è con un momento quasi documentaristico, da reportage giornalistico, che la regia si concentra su questi rimasugli monchi di potere. Un potere che non è solo parola, quella folle che sentiamo rimbombare nella notte, ma è anche un volto, quello di questa moderna versione di Dr. Stranamore ma anche quello dei singoli che lo osservano, seri e silenziosi, pronti a diventare “eroi” della penombra. Ecco che allora finalmente la regia diventa essa stessa contenuto, nella logica di questa decadente e disfatta satira politica con tratti di black comedy che sfugge da ogni categoria perché non è semplicemente un film, ma una visione, un linguaggio, un’ipnosi, un gesto artistico purissimo che, come tutta l’opera di Serra, non si può incasellare. Si può solo godere.
Bianca Montanaro